La prima volta il mio romanzo era nuovo.
Rilegato in copisteria, pagina dopo pagina nello svolgersi della trama. Ogni personaggio al proprio posto.
Una consistenza diversa. Lo strinsi con nuovo orgoglio.
Pagai, ero soddisfatto. Più di me, lo era la proprietaria della copisteria. Doppia spirale, copertina semirigida, oltre trecento pagine di copie.
La prima volta il mio romanzo era nuovo.
Iniziò a invecchiare subito, quando mi accorsi che erano necessarie altre copie. Perse l'unicità e se ne andò per l'Italia, chiuso in sacchi postali, colore marrone, come vecchie divise di soldati.
Di copie, sul campo, ne caddero tante. Tutte disperse.
Non ne ebbi mai notizie.
Il mio primo romanzo è diventato clonazione inconsistente di attese.
Forse qualche sua copia giace ancora dove finiscono i manoscritti ignorati. In compagnia di altri reietti.
Nei ghetti del romanzo. Nel loro sterminicidio.
Non si accettano visite.
Non si accettano richieste.
Non si accettano speranze.
La prima volta il mio romanzo è infine nato.
Dopo raccomandate, trascorsi capitoli di calendari, un editore distratto lo ha pubblicato.
Ma, a quel punto, il mio romanzo era già morto, sepolto nei vagiti di migliaia di nuovi romanzi.
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