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Lungo il vento - edizione provvisoria su ilmiolibro.it



"Lungo il vento" - Giovanni Sicuranza
ilmiolibro.it (edizione provvisoria); sul sito del Gruppo l'Espresso -


Stalin ha lo sguardo pieno di chi nella vita ha visto tanto, forse troppo, e il corpo appesantito di chi ha già sentito i primi odori della propria morte.
Nemmeno ora che lo tengono immobile, chiuso in una prigione di artigli, pensa di ribellarsi. Non si stupisce nemmeno che a catturarlo siano stati i cuccioli di chi gli ha dato cibo e acqua durante i suoi lunghi vagabondaggi.
- Dai, dai tenetelo fermo!
I volti delicati dei bambini si sporgono sul gatto del paese, gli occhi spalancati, le mani che calano e stringono.
Stalin muove la coda, con un gesto così lento che non significa nulla. Eppure vede una di loro che si ritrae.
- E se ci graffia? È un randagio. Papà dice che è pieno di malattie.
Federico si volta verso la bambina e la stritola con un’occhiata piena di disprezzo.
- Sei una vigliacca, Adele – sentenzia e allora anche gli occhi dell’altro bambino passano da Stalin a lei e portano lo stesso disprezzo.
Adele strofina le mani sui pantaloni, tenta un sorriso di resa, poi, quando scorge la coda di Stalin sollevata a mezz’aria, fa un altro passo indietro.
- Dobbiamo proprio? – pigola, lo sguardo che corre ovunque, come alla ricerca di una risposta. Ma intorno a lei c’è solo la solitudine del cimitero abbandonato. Del resto, è proprio per non essere scoperti che si sono rifugiati qui, tra le lapidi, sulla collina di Magnanimo. 
Federico e Mirco continuano a guardarla, in silenzio, pieni di biasimo. Sono chini sul gatto, quel coso magro e spelacchiato, e lo tengono ben saldo con le mani. In effetti, a ben guardare, Stalin non sembra avere molte possibilità di ribellarsi, ma il papà le ha spiegato del randagio del paese, di come si infili dappertutto, nella spazzatura, nei boschi. Nel cimitero. “Stai attenta a non farti graffiare”, l’ha ammonita ogni volta che lei gli ha raccontato di averlo visto, “Lo sai che è pieno di malattie”. 
- Tienilo fermo – ordina Federico all’amico, senza guardarlo, gli occhi sempre puntati su Adele. Quindi si alza, mentre Mirco si affretta a stringere la presa e a deglutire più volte, improvvisamente anche lui preoccupato dalla reazione del gatto. 
Federico è alto e ha un viso bello, Adele riesce a pensarlo anche ora, mentre la paura serpeggia tra i suoi pensieri. Del resto, ha sentito i vecchi del paese mormorare che assomiglia al nonno, il grande Federico Celesti, eroe scomparso della resistenza. Una volta, incuriosita, lei era salita nella biblioteca dei quartieri nuovi, per cercare una foto del nonno di Federico. E aveva trovato un intero volume dedicato alla sua vita. Nella settimana successiva lo aveva divorato, chiusa nella stanza, vergognandosi della sua curiosità, che tutti avrebbero deriso come debolezza. Aveva letto che Federico Celesti era stato un partigiano senza macchia e senza paura, il comandante della brigata che aveva liberato il paese di Magnanimo dalle orde fasciste e naziste. Poi, dopo la guerra, era stato nominato Cavaliere e quindi Senatore a vita, titolo molto importanti, anche se lei non ne capiva il significato. Ma, soprattutto, Adele aveva visto le foto. E ne ricordava una in particolare. Federico Celesti era un bianco e nero ritratto tra gli alberi del bosco, nel Passo del Tordo, quello che era stato cancellato dal disastro degli anni sessanta. Era vestito da cacciatore, con il fucile impugnato in una sola mano, l’altra appoggiata al cinturone, bello e fiero come un antico guerriero. E anche se la foto non aveva colori, Adele aveva trovato gli stessi occhi chiari del nipote. Occhi forti, così simili a quelli che la stanno avvolgendo ora, a distanza di oltre quarant’anni. 
- Non fare la stupida – Federico si avvicina a lei di un passo, poi, senza nemmeno voltarsi, indica il gatto alle sue spalle – Lo sai che è un rito necessario per entrare nel gruppo. Lo hanno fatto in tanti, anche prima di noi. 
- Sì, ma – inizia Adele, incerta. Si sporge oltre la figura di lui e vede Mirco in ginocchio, assente, tutto concentrato a tenere fermo Stalin. 
- Non vorrai mica starne fuori? – Federico ha un sorriso spigoloso - Come quel cretino di Jacopo.
Adele si affretta a scuotere la testa. Jacopo ha sempre detto che voleva entrare nel gruppo, ma quando hanno catturato Stalin, è diventato pallido, ha detto che non se la sentiva ed è scappato, chissà dove. Un traditore, aveva urlato Federico. Merda, gli aveva fatto eco Mirco e lei si era messa a ridere. 
Solo che ora, ora che il gatto si è mosso …
- Non mi manca il coraggio – annuncia, lo sguardo che torna in quello di Federico. 
- Brava – Federico è lesto a chinarsi e a raccogliere un grande sasso – Forza, allora, uno alla volta.
Adele tenta di annuire. Non sa se ci riesce, ma ora non importa. Anche se la voce di suo padre continua ad ammonirla di non toccare il gatto, le parole di Federico sono più belle, tutto lui è più bello. Anche più di suo papà. Almeno Federico non torna a casa ubriaco, non urla e rompe le porcellane della mamma, fregandosene se lei è morta da pochi mesi. 
E poi Federico ha ragione, per entrare nel gruppo devono dimostrare di essere capaci di questo. Ed altro.
Si china anche lei, prende un sasso e intanto si stupisce di quanto sia diventato tutto facile, leggero. Quando si alza, Federico si è spostato da un lato e, con un piccolo inchino, le sta indicando il gatto.
- Prego, madame. Prima le donne – scherza.
Sì, è bello, proprio come nella foto di suo nonno. Tanto bello che Adele si incammina verso Stalin, la mano che stringe il sasso. E intanto sorride.

***

- Non c’è proprio niente da ridere! – brontola la donna, mentre lotta con il cambio per affrontare la salita. L’auto gracchia ancora e l’eco che riempie la vallata sembra un’altra risata. 
- Ma porca … - inizia lei, ma il sussulto è improvviso e forte, tanto da interromperla, tanto da farla ammutolire del tutto quando si ripete, una volta, due.
Valentina si accascia esausta sul sedile. Più di quattro ore di guida, l’ultima tutta in salita, e i suoi timori sono diventati realtà, proprio lungo il sentiero del bosco, appena superato il cartello beffardo di benvenuto a Magnanimo, Comune denuclearizzato.
Del resto, cosa ti aspettavi da una microcar? si chiede, nemmeno sorpresa di farlo con la voce di sua madre. 
- Stai zitta – la ammonisce, mentre cerca il cellulare nello zaino al suo fianco. 
Figurati se trovi campo in questo posto ameno, insiste la madre. 
E invece il campo c’è, anche se debole. Ora si tratta solo di capire quale numero fare per chiedere aiuto. Carabinieri? Servizio Assistenza? 
L’esercito? Il Governo?, domanda mamma cara.
Valentina sbuffa. Forse prima è meglio provare a mettere in moto, magari “Scatoletta” ha ancora un residuo di motore e di dignità a cui appellarsi. Appoggia il cellulare sul sedile, per liberarsi l’unica mano funzionante, e gira la chiave. 
La microcar emette un lamento straziato, poi tace. Tra gli alberi che delimitano il sentiero, versi di uccelli si alzano in risposta. 
- Dai – esorta lei e gira ancora la chiave.
“Scatoletta” tenta il tutto per tutto. Un balzo in avanti, poi si affloscia. 
- Cazzo – geme Valentina, il capo chino sul volante. Quindi si gira verso il cellulare e aggrotta la fronte quando non lo vede sul sedile – Ma figurati – e si sporge di lato, puntellando la mano destra sul cruscotto, attenta a non perdere l’equilibrio, l’altro braccio appeso al petto e imprigionato in una doccia, da anni privo di ogni funzione e sensibilità.
Tasta alla cieca, sperando che il cellulare non sia finito proprio sotto il sedile, anche se non si aspetta altro, visto come vanno le cose, e quando lo trova e si alza, rimane immobile, la bocca aperta, il telefono a mezz’aria. 
Il ragazzo è fermo a pochi passi dall’auto e la fissa con occhi attenti.

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