Spiaggia ammalata di noia. Così vasta e deserta da perdersi in se stessa.
L’uomo la calpesta con disprezzo.
È come se ne sentisse l’inutile lamento entrargli nei piedi gonfi e viola e salire per mordergli ogni tendine, ogni articolazione, fino a scavare fitte di solitudine al cervello.
L’uomo ha freddo. Un freddo nuovo, sconosciuto, che non ascolta il divieto degli abiti pesanti, che non è sussurro di passaggio, ma mano che stringe forte e non molla la presa.
Anche le onde che si gettano contro i piedi, mordono la carne un istante prima di morire in schiuma biancastra. È il suicidio collettivo del mare sulla sua persona, tenace, senza sosta, che può terminare alla sola condizione che l’uomo si sposti all’interno, verso il paese.
Ma lui non può farlo. E allora avanza sul bagnasciuga, nudo e pesante di solitudine e gelo, verso un altro soffio di vento, intorno ad una nuova carica di onde.
Il suo respiro è un singhiozzo frenetico che chiede vita.
L’uomo maledice la spiaggia, un cadavere di sabbia e onde, così simile al suo vuoto.
Impreca contro la propria sorte e il luogo senza speranza che la accoglie, impreca e va avanti, la carne dei piedi che si sfrangia in sottili linee di sangue, le mani serrate in un ritmo di ampi tremori, il pene avvizzito e già privo di vita che urta contro l’insensibilità delle cosce.
Tira su con il naso, non tanto perché ne ha davvero bisogno, ma per ricordarsi di avere ancora un naso.
Poi si ferma.
Ha finalmente scoperto una via di uscita.
Il cuore ha un balzo di vittoria.
Bastarda spiaggia, non sono come te, urla nelle caverne ghiacciate della mente, posso ancora farcela.
Ma ha un problema.
Che ancora non intuisce.
L’Autore di questo racconto è stanco di scrivere. E lo lascia lì, in un mondo di morte, senza speranza di fuga.
Senza appello.
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