Maschere di Giovanni Sicuranza
[racconto tratto dall’omonima raccolta edita da Giraldi Editore]
Ci fu un momento nella monotona vita di Villa Tassoni in cui a tutti sembrò di respirare una frizzante aria di novità.
Ebbe inizio diversi anni prima della morte del Vecchio, proprio il giorno in cui lo vedemmo qui. Per la prima volta.
Ovviamente il Vecchio aveva un nome, ma già da tempo alla casa di riposo lo chiamavano così, semplicemente, e all’inizio anche con quell’affetto sfumato che si dedica spontaneamente a chi è frizzante.
Poi i sentimenti cambiarono volto e, anche se nessuno lo diede a vedere, sono sicuro che alla fine, quando il Vecchio morì, a Villa Tassoni si riprese a respirare serenamente.
Aveva fatto il suo ingresso in un pesante pomeriggio di pioggia, accompagnato da un uomo calvo e dal naso enormemente lungo, curiosa combinazione che ne rendeva la testa simile ad un punto esclamativo coricato su un fianco.
Probabilmente si trattava del figlio, anche se in realtà nessuno di noi sapeva chi fosse e a nessuno importasse veramente.
Durante lunghi mormorii indiscreti si era stabilito che quel tipo dall’aria buffa e distaccata almeno un miglio dal mondo doveva essere suo figlio. Semplice.
Senza tante cerimonie, “Punto Esclamativo” aveva depositato il Vecchio nel salone ricreativo e, dopo un breve colloquio con il direttore, era scomparso velocemente nella pioggia. Successivamente, negli ultimi anni di vita del Vecchio, si fece vivo sì e no un paio di volte. L’ultima, lo ricordo bene, proprio il giorno in cui regalai a mio figlio la sua prima ed unica auto. D’altra parte il Vecchio non parlava mai di lui, anzi, durante le brevi visite si mostrò distaccato, quasi infastidito.
A fare del Vecchio un ospite particolare fu il comportamento che mostrò durante la lunga permanenza alla Villa, una totale negazione della scontrosità riservata al figlio.
Scherzava e rideva, rideva e parlava, parlava e scherzava e non si fermava mai.
A sentirlo gli avreste dato non più di trent’anni e invece si diceva ne avesse una novantina (non so se fosse vero, ma il suo corpo li dimostrava tutti).
Si diceva
Intorno a lui aleggiava una sorta di divertente mistero. Poteva raccontare per ore ed ore i particolari più insignificanti di un fatto banale, riuscendo a catturare l’attenzione del più apatico degli ospiti (penso in particolare al dottor Sersi, povero demente morto dimenticato tra le sue feci); eppure mai, e dico mai, aveva speso un solo secondo per soffermarsi su un qualsiasi momento della sua vita.
Il tempo passava, la campagna mutava senza sosta in un gioco di morte e vita, gli ospiti della Villa cambiavano in un frenetica corsa verso il nulla, a volte troppo in fretta per poter stringere tra loro un vero rapporto d’intesa. E forse era meglio così.
Anche il personale cambiava, sia pur molto lentamente e per cause diverse, ma lui era sempre lì e scherzava e rideva come un bambino troppo vivace.
Così con il tempo, lentamente, era cambiata anche l’atmosfera.
Se si era creato un alone di curiosità intorno alla sua figura, tanto che per gli inservienti era una tappa d’obbligo visitare la “sua” stanza e scambiare qualche parola con lui, per poi raccontarne l’esperienza con una punta di orgoglio, cominciarono anche le lamentele degli ospiti che spesso preferivano rimanere soli o semplicemente fare qualcosa di più rilassante che subire l’energica vitalità del Vecchio.
Il direttore in persona, con molto garbo, cercò di fargli capire che in una casa di riposo ci si aspettava, per l’appunto, anche tranquillità e silenzio, ma il Vecchio sembrava non sentire e le lamentele diventarono proteste e le proteste malcontento.
Però i soldi della rendita continuavano ad arrivare puntualmente ed erano tanti ed erano utili. E il direttore non convocò mai più il Vecchio.
Fu quando si avvicinò ai centocinque anni (così si mormorava) che il malumore cominciò a serpeggiare anche tra gli inservienti che passavano la notte a Villa Tassoni.
Contrariamente alla consuetudine che voleva le stanze degli ospiti raggruppate al primo piano, quella del Vecchio era al piano terra, attigua ai dormitori del personale, probabilmente ancora una volta grazie alla cospicua somma che “Punto Esclamativo”, o chi per lui, versava nelle casse dell’amministrazione.
Quando il Vecchio iniziò a parlare durante la notte, anzi, spesso ad urlare durante la notte, gli infermieri unirono le loro proteste a quelle degli ospiti. Ma il direttore non autorizzò il trasferimento di stanza, pregando invece tutti di avere pazienza, perché le cose sarebbero presto cambiate, ne era certo.
E in effetti cambiarono, anche se probabilmente non come pensava lui.
Poche settimane dopo, trovarono il direttore nel suo studio, stroncato da un infarto, con i pantaloni ancora abbassati e il pene flaccido, una rivista pornografica vogliosamente spalancata sulla pesante scrivania di mogano.
Il sostituto era un individuo dai denti neri e lo sguardo gelido che per i pochi anni in cui rimase a Villa Tassoni si sforzò di essere comprensivo e cordiale, ottenendo lo stesso successo di un cieco alla guida di un’auto.
Ma con lui il Vecchio cambiò stanza.
Sembra che una volta al neodirettore venne la curiosità di ascoltare il frenetico farfugliare di quel singolare personaggio. Per qualche minuto origliò alla sua porta e che tornò subito sui suoi passi, turbato, molto turbato.
Il giorno dopo diede disposizioni affinché il Vecchio fosse trasferito al secondo piano, lontano dagli ospiti e dal personale.
Eppure, nelle giornate successive, ogni cosa tornò come prima, la sua allegria e i suoi scherzi non risentirono di alcun cambiamento. Solo che ormai tutti lo giudicavano strano, decisamente strano.
E si limitavano a sopportarlo con malcelata pazienza.
Tutti, ma non io.
A differenza degli altri, vedevo.
Guardavo dentro i suoi occhi e leggevo tristezza, un abisso di solitudine e angoscia. Così, invece di seccarmi, il suo comportamento vivace mi incuriosiva.
Intuivo che la sua vitalità era un’ombra. Il Vecchio nascondeva un’altra verità.
Lo osservai a lungo, quasi per un anno, senza tuttavia stringere amicizia con lui. Scambiavo qualche parola, questo sì, un paio di volte fui vittima dei suoi scherzi, questo anche, ma nulla di più.
Mi limitavo a guardare, a vedere, incuriosito e perplesso, mentre intorno la Morte danzava con tutti continuando ad ignorarlo.
Finché una notte non sentii che era giunto il momento e in silenzio salii le scale e mi avvicinai alla sua porta.
Volevo sentirlo parlare nel sonno, e non per semplice curiosità come si diceva avesse fatto il direttore, ma per interpretare i geroglifici che fino ad allora mi avevano mostrato i suoi occhi. Per qualche minuto rimasi con un orecchio appoggiato alla porta, senza udire nulla. Dopo una grigia giornata, aveva cominciato a piovere e le gocce che battevano sulle finestre sembravano un rimprovero alla mia intrusione. Abbassai la maniglia.
Se si vive in una casa di riposo, con il passare del tempo, quando ci si avvicina sempre più al capolinea, difficilmente ti permettono di chiudere la porta a chiave durante la notte.
Il Vecchio era lì da infiniti anni.
La porta miagolò e si aprì.
Entrai, a passi lenti.
Il Vecchio dormiva, apparentemente tranquillo, forse sotto sedativo, il viso consumato da un rincorrersi confuso di carne appassita. Un bianco lenzuolo lo copriva fino al mento e il suo respiro irregolare imitava il sibilo del vento quando frusta gli alberi.
Non c’era nulla di rassicurante in quel momento, ma io aspettai.
Rimasi a lungo immobile, mentre la notte pulsava nella sua breve esistenza, e proprio mentre cominciavo a domandarmi perché mai mi ero messo in una situazione del genere, notai un foglio sporgere dal cuscino. Lo presi senza esitare, quasi in un gesto liberatorio che giustificasse la mia intrusione, e in silenzio tornai nel corridoio. Non chiusi la porta della stanza.
Il foglio era piegato in due parti. Lo distesi.
All’interno, la data di quel giorno. Poi, alcune parole scritte a mano con una calligrafia tremante e frettolosa, che portavano in calce la firma del Vecchio.
Mi avvicinai alla fioca luce dell’alto lampadario e, mentre la pioggia aumentava il suo inutile richiamo, lessi
Non la vedo
Osservo, cerco e mi perdo
Ma non la vedo volare su
un soffio discreto sprigionato
dal vento
Fosse questa la notte per dire
ecco ci siamo
si è aperto l’orizzonte
Quanti istanti
falsi e fugaci
mi hanno annunciato
il suo arrivo su un alato destriero
una magica nuvola
Anche oggi sono
Qui
e osservo e cerco e
mi perdo e invecchio
Stanco
Ma non la vedo
Anche oggi
fino a sempre
perderò l’appuntamento con
la Creatura chiamata Morte
Non mi resi conto di essere indietreggiato se non quando mi trovai con le spalle al muro. E a quel punto ero già esausto, sprofondato nell’oscuro baratro di ogni singola parola che lacerava quel foglio.
Mi lasciai scivolare a terra e mentre il freddo pavimento mi accoglieva indifferente, anche dai miei occhi iniziò a piovere. Piano. Non c’era alcuna allegria, alcuna vivacità tra le parole che avevo letto.
Questo era il suo segreto.
Il Vecchio voleva morire, aveva un disperato bisogno di morire.
Chissà da quanto tempo attendeva invano quel momento, diventato l’unica speranza negli occhi di un relitto.
Io potevo capirlo, sì, potevo capirlo e sapevo come aiutarlo, anche se sono convinto che negli angoli più nascosti del mio animo lo avevo saputo fin dal nostro primo incontro.
Entrai ancora nella sua stanza.
La mattina dopo lo trovarono morto e dissero che era soffocato nel sonno.
Da allora sono passati tre mesi ed ora io occupo quella stanza.
Non sono vecchio come lui, ma si dice che a volte, nella notte, urlo.
Io ci credo.
Vi ho detto che ero l’unico a vedere negli occhi del Vecchio ed è vero. Perché io so riconoscere la sofferenza anche quando si cela dietro l’allegria, se si nasconde nella gioia.
Se si maschera da felicità.
Simile chiama simile, è sempre stato così. Ho perso la mia famiglia in un incidente, quasi un anno fa’: mia moglie, mio figlio, mia nuora. Bruciati nell’auto che avevo regalato a lui.
Sono solo.
Gli inservienti sono bravi, ma freddi; gli altri ospiti simpatici, ma chiusi nei ricordi e proiettati nelle visite dei loro cari.
Nessuno vede.
Mi hanno detto che ho un tumore, una schifezza allo stomaco, che mi sta mangiando a poco a poco. Ironico, no?
Non voglio consumarmi così, privo di orizzonti, ma sono sempre stato un debole per quel che mi riguarda e anche ora non riesco a decidere. E’ per questo che anch’io indosso una maschera.
Se capiterete a Villa Tassoni, state pur certi che qualcuno vi parlerà di un Vecchio che scherza e ride, ride e parla, parla e scherza. Ma se supererete la mia prova, se siete tra quei pochi rimasti, tra quei pochi che vedono, a voi vorrò affidare il mio destino.
Accadrà, lo so, perché simile chiama simile. Questa sera metterò il solito foglio sotto il cuscino, con la data di oggi, la mia firma e delle parole in versi:
Non la vedo
Osservo, cerco e mi perdo
Ma
non la vedo…
Nota dell'Autore: come avrà capito chi ha letto l'opera, "Maschere" è l'embrione del romanzo "Quando piove".
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