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La fotografia post-mortem e il mutamento sociale della morte. Parte seconda.

La fotografia post-mortem continua ad essere praticata al pari di battesimi, o altre cerimonie che solitamente diamo per largamente rappresentate.

Alcuni studi fotografici e le testimonianze di professionisti, che si sono personalmente imbattuti in questa pratica ampiamente tabuizzata quanto diffusa in epoca contemporanea, lo dimostrano.

Negli ultimi anni, negli U.S.A. e in Paesi europei come la Svizzera (ma non solo), alcuni ospedali offrono questo servizio per le famiglie colpite da gravi perdite, come nel caso di bambini nati morti a cui il personale di servizio scatta delle fotografie per i parenti che, seppure in principio possono dimostrarsi contrari, dopo qualche settimana ritornano a desiderare l'immagine proposta per non perdere, assieme al bambino, anche il suo ricordo. L’antropologo J. Ruby scrive:

“Visto il ruolo della famiglia nella definizione dei riti funebri, e quindi anche della pratica della fotografia post-mortem, resta da chiedersi quali siano state le cause del suo progressivo smarrimento e perché dunque, vista la sua funzione, non sia stata più in grado di esercitarsi conformemente agli stadi di dolore che comunque non si sono mai estinti. Se la morte è primariamente un fatto sociale e se le reazioni che provoca sono collettivamente negoziate, allora i cambiamenti a cui queste assistono sono da ricollegare ad un qualche mutamento avvenuto all'interno della collettività”.

Non c'è dubbio che il nostro rapporto con la morte sia profondamente cambiato, e non solo in base ai mutamenti culturali che hanno definito il decorso storico dell'occidente negli ultimi centocinquanta anni, ma anche agli inevitabili progressi scientifici che hanno rimodellato la vita quotidiana e stravolto la sua organizzazione sociale in nuove forme di comunità tecno-burocratiche.

La morte sembra non esser più capace di rimodellare i rapporti interpersonali e consolidare la comunità, e l'oggetto della nostra attenzione (le fotografie post-mortem), fornisce in proposito un punto di vista privilegiato.

Va però ricordato che uno studioso eminente del calibro di J. Ruby ci avverte che dall'alba del novecento poco o nulla è cambiato. Questa pratica si è tutt'altro che estinta e la sua apparente scomparsa riguarderebbe più un cambio di rotta negli atteggiamenti di tolleranza sociale che un suo reale esaurimento.

Dian Rabson, della Colorado Historical Society di Boulder, afferma di aver personalmente visionato, in un arco di tempo di due anni, quando lavorava presso la divisione della Kodak, un gran numero di queste fotografie, probabilmente in misura maggiore di quante non ne avesse viste ritrarre matrimoni. Scrive nel 1995:

"Ho prove sufficienti per dire che la fotografia post-mortem fa parte delle abitudini fotografiche contemporanee”.

Fin dai primi anni del novecento, la Kodak ha permesso a tutti di scattare fotografie amatoriali con una semplicità prima sconosciuta, ed una pratica così intima sembrerebbe approfittare di questo contributo tecnico per chiudersi in una cerchia protetta di affetti che in parte la rende oscura all'attenzione sociale.

In questo modo il ruolo del fotografo professionista diminuisce e nonostante più della metà dei fotografi in Pennsylvania abbiano accettato almeno una volta commissioni di questo genere, la loro frequenza è certamente diminuita e la rilevanza economica che a cavallo tra i due secoli ha reso questa pratica degna d'attenzione da parte dei professionisti è adesso certamente un fenomeno marginale.

Questo spiega perché dal 1880 circa, le riviste specialistiche, indirizzate ad un pubblico di professionisti, non pubblichino più articoli in proposito, ritenendo la pratica in se stessa di scarso interesse professionale. Tra gli ultimi articoli apparsi si può ricordare quello del 1891 nell' "American Journal of Photography", che mette l'accento sul contributo tecnico fornito dalla luce artificiale (flash) per poter riprendere un cadavere in qualsiasi circostanza di luce e con risultati eccellenti.

Il mutismo della stampa e della ricerca è però anche e soprattutto il risultato di un ribaltamento sociale che non può non essere menzionato.

Da un lato, il chiudersi della pratica nell'attività amatoriale ha reso inaccessibile ai più i suoi risultati e, dall'altro, la partecipazione sociale a tutto l'arco del lutto ha visto, nel corso della seconda metà del novecento, un drastico declino.

Quando Gorer parla di pornografia della morte si riferisce a quell'ambito dell'indicibile e dell'incomunicabile che la morte apre con la sua venuta, perché la manifestazione del dolore diviene, con il tempo, un segno disdicevole e socialmente rigettato.

Nonostante gli studi di P. Ariès, J. Mitford, E. Ktibler-Ross, M. Vovelle, L. V. Thomas, ecc., la morte continua ad essere un circuito indescrivibile e socialmente rimosso, in cui gli atteggiamenti individuali non trovano più l'appoggio di quella collettività, che non solo li giustificava, ma pure li rendeva funzionali al dolore ed al suo risanamento.

Le famiglie che posseggono foto post-mortem o le vendono a collezioni private o pubbliche, o le custodiscono gelosamente, in segreto, per timore di essere considerate morbose.

Poco importa se la pratica sia tutt'altro che in disuso, ciò che conta è la mancata partecipazione sociale, ormai cristallizzata ed incapace di accompagnare il dolore alla sua deriva.

Il nostro rapporto con la morte è cambiato.

In parte perché i progressi medici e scientifici hanno reso possibile una rinnovata visione della vita e della morte, in parte perché il nuovo armamentario tecnico ha preteso nuove forme di organizzazione sociale su cui poter esercitare la propria necessaria influenza.

Questo cambiamento però, non va inteso come radicale abbandono delle antiche concezioni, ma piuttosto come una loro più profonda rivisitazione.

È innegabile che i progressi medico-scientifici abbiano finito per mutare l'immagine della morte, ma non sono stati in grado di cancellarne quell'angoscia da cui deriva la sua fuga nell' immaginario metafisico.

Con l'estendersi del pensiero scientifico, e il consolidarsi delle sue produzioni materiali e culturali, si sviluppa, in maniera direttamente proporzionale, tutta un'area di resistenza e di fuga nell'immaginario che evidentemente è più affine alle esigenze profonde degli individui, per lo meno in situazioni di grave instabilità, come quelle generate dall'esperienza del lutto o dalla riflessione sul senso della vita e della morte.

Nessuna nuova scoperta, nessuna avanguardia culturale, potrà mai annichilire il carattere persecutorio della morte, se prima non si assiste ad un cambiamento concreto dei contesti in cui essa interviene.

I progressi della scienza medica hanno prima di tutto cambiato il modo di morire e solo successivamente l'immagine concettuale che ognuno di noi può farsi della morte.

Se un tempo si moriva al cospetto di un corteo di parenti, amici, conoscenti, giunti anche da lontano a prestare il loro ultimo saluto, oggi tutto questo cerimoniale svanisce nelle fredde e sterili stanze di un ospedale.

Morire era anzitutto un'esperienza esistenziale, un processo di maturata o rinnegata testimonianza di forze avverse, come quella di restare e quella di partire per un altrove immaginato o anche inimmaginabile, un ultimo contatto con una comunità intera e con i suoi simboli.

Oggi è un fatto tecnico, medico, specialistico, persino impersonale.

L'avvicendarsi della morte trasformava la camera del morente in un luogo di ferrea socialità, diventava essa uno spazio pubblico, aperto a curiosi, parenti solidali, conoscenti affettuosi. Il medico seguiva il decorso della malattia con più discrezione che accanimento, vegliava sul moribondo non tanto per sottrarlo al suo destino almeno un giorno in più del previsto (le conoscenze mediche non lo permettevano affatto), ma per accompagnarlo nel migliore dei modi possibili, e per quanto le sue facoltà permettessero, all’appun¬tamento inestinguibile che l'aspettava.

Oggi invece si muore quasi di nascosto, come fosse un incidente di cui vergognarsi e l'ormai impopolare corteo di visita alla camera del morente ha assunto i tratti di un ultimo saluto più meschino e interessato, che non sinceramente partecipe al dolore e al valore che la morte aggiunge ad ogni vita che si prende.

A questa morte, clandestinamente vissuta, non si può neppure opporre la partecipazione commossa dei familiari, che sembrano aver perso la capacità di accompagnare il loro caro attraverso i complessi meccanismi della malattia e della morte.

L. Heath, nella sua lunga carriera di medico, ha ampiamente affrontato queste problematiche e concluso che “la professionalizzazione delle cure palliative e la conseguente medicalizzazione della morte sembrano aver sottratto competenze a poteri alle famiglie e agli amici, che non sono dunque più in grado di adattarsi all' angoscia di chi muore» [Heath, 2007].

In nome di una scienza che emancipandosi continuamente vanta il privilegio di poterci sottrarre giorno per giorno dall'imminenza della morte, il malato è diventato uno dei suoi oggetti di ricerca, deprivato così della sua condizione di essere umano e con questa della sua stessa autorità sull'esito della propria esistenza. Fino a qualche anno fa gli era negata persino la conoscenza della sua condizione di salute, tanto disumano l'aveva reso la malattia, tanto incapace di resistere a se stesso l'ha inteso fin da subito il sapere medico.

I processi patologici ad esito letale non appartenevano a nessun'altro che all'equipe di specialisti che di questi si occupava.

Oggi, per fortuna, c’è maggiore informazione, ma è sempre condotta con cautela. Ciò significa anche che il moribondo non possiede le caratteristiche, scientificamente ritenute rilevanti, affinché abbia piena consapevolezza di se stesso e quindi la capacità di decidere della sua sorte.

Non conviene addentrarsi nei discorsi sull'eutanasia e la libertà individuale di vivere o morire, e del resto non sarebbe questa la sede più adatta, ma mi dovete concedere almeno un piccolo raccoglimento su ciò che ha significato, per l'intera comunità, assistere a questo profondo cambiamento di regime, al passaggio cioè della morte da fenomeno esistenziale ad accadimento tecnico.

Non è difficile intravedere, alle spalle di qualsiasi opinione medica in questione, l'assunto scientificamente condiviso ed accettabile che l'uomo altro non sia che un organismo complesso e quindi tecnicamente sondabile e circoscrivibile, ma non è in discussione la naturale condizione dell'uomo, bensì l'esasperazione ossessiva di ciò che è organico su quanto è umano.

In nome della scienza, dei suoi progressi, l'individuo è stato sottratto alla schiera dei suoi cari per farlo morire, lentamente, ma inesorabilmente, tra le mura di un ospedale.

I progressi scientifici hanno permesso un corpo più durevole.

Ma non un uomo più consapevole di se stesso.

Sviluppandosi, la medicina ci ha detto: adesso puoi guarire.

Ma il risultato del progresso scientifico, complice anche la grande aspettativa della gente sulla paura della sofferenza e della morte, è stato: adesso devi guarire.

Alla malattia segue il ricovero, al ricovero segue la sottomissione ospedaliera, e a questa sottomissione segue, inevitabilmente, il deprezzamento di qualsiasi forma di rito.

Questo è senz'altro il grande cambiamento: ieri le credenze religiose incitavano a collocare la morte nella vita, di cui essa non era che una tappa.

Oggi, la morte è l'anti-vita, principio assoluto che si apre sul vuoto, negazione totale dell'esistenza.

E importante quindi dimenticarla al più presto, nell'attesa che la scienza, prima o poi, "le faccia la pelle". [Thomas, 1978]

La morte allora, non è più vissuta in quanto termine naturale della vita, ma piuttosto come l'evento terminale della malattia; una sorta di fallimento terapeutico, per cui morire diventa l'esito di un particolare destino del singolo e non l'epilogo prevedibile, ovvio e necessario, della condizione umana.

Non voglio essere frainteso. Non è qui posto in discussione il progresso della medicina, anzi, ma il suo intervenire, da parte degli individui, sulla ritualità della morte.

L'ospedale non è il luogo adatto affinché il rito si esprima, il medico non è la persona adatta perché il moribondo si senta partecipe, anche in fin di vita, di una comunità che lo ha accolto e continuerà a farlo.

La deontologia medica, necessaria, non è comunque adatta a prescrivere i codici necessari al morente per vivere la propria morte con dignità.

Perché, se da un lato la medicina contribuisce a sollevare la vita (almeno fino a un certo limite), da un punto di vista sociale, il malato è già morto nel momento stesso che viene segregato in ospedale e sottratto ai suoi normali contesti ambientali.

Morto ancor prima di questa reclusione quando ha smesso, in un mondo economicamente gestito e su cui il valore individuale dipende dalla quantità di denaro che si riesce a scambia¬re, di produrre e contribuire alla sempre più massiccia estensione di capitale.

Questa è appunto la condizione implicita in cui si viene a trovare la terza o quarta età, che ci presenta l'anziano in quanto debole, fragile, dipendente, inutile, persino ingombrante, e ciò a partire dal fatto che non può più produrre o scambiare capitale.

Va quindi ricordato che non sono state soltanto l'iniziativa scientifica e le innovazioni tecniche a squalificare la morte e con questa i morenti.

***

A mio avviso, il ruolo fondamentale dell’esperienza della morte risiede nel danno economico che il decesso provoca, concretamente, all'interno della comunità.

Per le società preindustriali o le piccole comunità etniche, relativamente dense di popolazione, la morte comportava un disagio maggiore di quanto non comporti adesso dal momento che una vittima rappresentava, nell'ordine dell'economia collettiva, una perdita tutt'altro che marginale.

Scrive L. Krzywicki in "Primitive society and Its vital statistic":

“Consideriamo, per esempio, una delle tribù medie australiane (dai 300 ai 600 membri). La perdita simultanea di dieci persone è un evento che, se considerato quantitativamente, avrebbe lo stesso significato della morte simultanea di 630.000-850.000 abitanti nella Polonia di oggi. E tali catastrofi, che privavano una tribù australiana di circa dieci persone, potevano accadere non di rado”. [Krzywicki, 1934]

La frequenza e il peso che la morte assume per una comunità, determina l'indice di attenzione che gli si presta definendo gli atteggiamenti che un dato gruppo assume nei suoi confronti.

Più una società è piccola, più la morte è presente come fattore quotidiano e tanto più è forte la sua influenza sul cambiamento delle relazioni sociali o sull'economia e il sostentamento di una comunità.

Ma non c'è affatto bisogno di guardare a piccole comunità rurali o primitive, il peso specifico della morte era ben diverso da oggi anche all'inizio del '900 o alle porte del secolo precedente.

Ancora nel XIX secolo la morte infantile era presente nella vita di tutti i giorni e coinvolgeva la maggior parte delle famiglie.

Un uomo di circa ventisette anni, già sposato e padre di cinque figli, con molta probabilità ne avrebbe visti solo due o tre arrivare all’età di quindici anni.

Oggi la morte, in linea generale, riguarda soltanto i vecchi; che normalmente si sono già ritirati dal lavoro ed hanno già assolto i loro compiti, così da non interrompere, con Il loro decesso, lo svolgimento delle normali attività quotidiane.

La morte non sembra più essere in grado di minacciare la stabilità del gruppo poiché riguarda, per lo più, quegli individui che, incapaci di continuare a produrre reddito, sono già esenti, se vogliamo anche morti, dal circuito vivo del funzionamento sociale.

Scrive R. Blauner nel 1984:

“La situazione è molto differente nelle società tradizionali: qui i legami familiari e i gruppi di parentela tendono ad essere la base di attività economiche, religiose o di altro tipo; le istituzioni sociali si intersecano attorno al nucleo delle parentele. La morte che colpisce la famiglia si trasmette quindi all'intera struttura sociale. Questo tipo di integrazione sociale (che Durkheim ha definito solidarietà meccanica) rende le società premoderne maggiormente vulnerabili al potenziale distruttivo della morte, a prescindere dalla sua frequenza quantitativa e dalla distribuzione di età. [ ... ] La morte indebolisce il gruppo sociale e provoca angoscia personale a cui i membri della società rispondono rafforzando i legami che li uniscono. Ogni morte distrugge il funzionamento del sistema sociale e incoraggia quindi nel gruppo risposte che ristabiliscono l'equilibrio sociale e diventano pratiche abituali che rafforzano il tessuto sociale”.

Poiché oggi si muore meno, più tardi, e lontani dalla comunità, la morte cessa di rappresentare un punto d'interesse sociale su cui costruire atteggiamenti e strategie definite. Questo non vuole dire però che essa non spaventi, che sia in una qualche misura dimenticata e addomesticata perché anzi, questo disinteresse sociale, non ha avuto altra conseguenza che un aumento dell'angoscia individuale.

È la comunità che volta le spalle alla morte fingendo non esista, ma l'individuo non può voltarle, egli ci pensa, in privato, incapace cioè di accedere a quei simboli e sfruttare quelle strategie che la società ha rimosso e che quindi non costituiscono più alcun sostegno per il dolore personale.

dicembre 2010
                                                                                                   Giovanni Sicuranza

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