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La fotografia post-mortem e il mutamento sociale della morte. Prima parte.

Le fotografie post-mortem possono definirsi oggetti concretamente disponibili che non si riferiscono semplicemente alla memoria della persona estinta, ma al suo stato di salute attuale e quindi alla sua permanenza entro limiti stabiliti dal gruppo.

Quando ho sottolineato il rapporto tra queste rappresentazioni del cadavere e lo spirito che lo abita, ho tentato di stabilire un accordo tra la presenza simbolica del defunto e il vuoto che la sua assenza sancisce.
È necessario però chiarire con maggiore precisione cosa si vada ad intendere con la parola spirito, usata e abusata più volte, con significati talvolta antitetici, secondo le diverse discipline di riferimento e i contesti etnografici indagati. Un tale chiarimento è fondamentale affinché emerga il reale contributo che queste forme di commemorazione forniscono ad una sana espressione del lutto, al benessere del gruppo di riferimento e al singolo che piange la scom¬parsa di una figura amata. Del resto, benché la morte sia un fatto che coinvolge l'individuo, essa è sempre un fenomeno collettivo, un accaduto che implica il gruppo intero e che questo vive come forza destabilizzante.

La morte può, in una certa misura, definirsi come un tutto sociale. Non soltanto perché la società, tramite la storia, la tradizione e più in generale il ricordo, è costituita _ secondo il celebre detto di A. Comte _ più da morti che da vivi, ma anche perché l'atto del morire _ con tutto ciò ch'esso com¬porta _ è innanzitutto una realtà socioculturale. La morte suscita infatti, a livello della coscienza individuale e di gruppo, degli insiemi complessi di rappresentazioni (serie di immagini-riflessi o di fantasmi collettivi, giochi basati sull'immaginario: sistemi di credenze o di valori, folle di simboli) e provoca dei comportamenti (atteggiamenti, con¬dotta, riti) di massa o individuali più o meno rigorosamente codificati a seconda dei casi, dei luoghi o delle circostanze.

[L. V. Thomas 1975]

Il rapporto con il morto segue dunque un duplice binario; ora indivi¬dualmente sofferto, ora collettivamente sentito, questo contatto può esprimersi solo con atteggiamenti socialmente condivisi, che, seppure nascono individualmente, sono allo stesso tempo negoziati, in un sistema di simboli prescritti e compresi dall'intera comunità.

La condivisione di questo linguaggio garantisce al morto Il rispetto dovuto e attraverso questo la sua quiete. Si recu¬perare pertanto la stabilità perduta e di nuovo concessa dalla presenza di uno spirito ormai esorcizzato. Mantenerlo all'interno di un tessuto di scambi sociali significa conservarne la memoria, anche in quanto forza strutturale e consolidante, capace cioè di resistere ai cedimenti della collettività fornendo un valido sussidio alla sua stabilità.

Il ricordo è in questo senso un accadere quotidiano, un recupero costante di tutto ciò il defunto ha rappresentato per la sua comunità e che continua a rappresen¬tare.

Il defunto non abita semplicemente II presente nelle menti dei superstiti, ma continua a fare parte della comunità, partecipandovi, perché attraverso il recupero simbolico della sua identità è ancora in grado d'esercitare una qualche influenza sociale.

Lo spirito è in questo senso un pattern emotivo-comportamentale che agisce sul gruppo. Garante di una storia, di una tradizione, consolida l'immagine di un'esistenza fluida che procede, senza interruzioni, attraverso i membri di una comunità.

In questo modo, Il defunto non è una presenza negativa che spaventa e nemmeno un'assenza incolmabile dal momento che resta vivo nelle forme e negli stili della collettività.

Non mi riferisco al resistere della credenza negli spiriti, ma all'attestazione di un durare dell'estinto che ha certamente la sua radice nell'immaginario spiritista e nelle spiegazioni metafisiche, ma che nell'attualità si esprime sotto forma di una recuperata tradizione comportamentale.

Chi è l'avo, l'estinto?

Cosa può rappresentare il suo ricordo per la comunità?

E che forma deve assumere un siffatto ricordo?

I morti rappresentano, per la comunità che li compiange, il tracciato del suo natale, il palcoscenico di quel passato da cui proviene e di cui non si può, né si deve, liberare. Il passato è allora una storia fluida, specifica, che morendo a se stessa si rinnova di generazione in generazione, indi¬viduo in individuo. Attraverso l'estinto, sia esso infante, saggio o lavoratore, padre, figlio o coniuge, operaio, sindaco o studente, io posso connettermi ad un tessuto continuamente rinnovabile, che mi riporta agli estremi del mio provenire, in qualche modo del mio essere, e di conseguenza del mio procedere.

I defunti fanno allora la guardia all'identità sociale vegliando le porte di una memoria stori¬ca, difendendo la coerenza fluente e priva d'interruzione del crescere collettivo.

Per riuscire in un sud¬detto compito, il defunto va però restituito all'intera collettività. Il suo contributo diventa vivo, cioè influisce, soltanto se accolto in quanto presenza della morte (perché la voce dell'avo di¬venta il suono della finitudine e al contempo quello dell'eternità) e non sotto l'egida di una vita interrotta, consumata ormai la fiamma spenta della sua presenza al mondo. Ogni morto è, per la comunità che ha abitato (e che deve continuare ad abitare), un tassello, un piccolo pezzo di una storia che cresce all'infinito, una vicenda che si costruisce mediante il concorso di tutti e che è sempre presente, attuale, nonostante sia composta per lo più dal contributo d'individui ormai scomparsi.

Se i morti definiscono i vivi attraverso la loro costante influenza, e se la morte va intesa come fenomeno collettivo perché è dalla collettività che si dipanano e si legittimano gli atteggiamenti individualmente assunti, allora le fotografie post-mortem, in quan¬to funzione del lutto, dovranno essere indagate a partire dal loro posizionamento sociale, cioè da ciò che rappresentano per la comunità in cui si inseriscono e dalla funzione che per questa svolgo¬no.

Il loro più profondo significato può emergere soltanto una volta chiariti gli scopi che muovono, chiamandolo, il desiderio di produrle.

L'assunto che accompagna l'infinita gamma di espressioni rituali sociali, non riguarda soltanto l'individuo colto nella solitudine del suo dolore, ma anche, se non primariamente, l'intero gruppo che dal¬la morte è stato minacciato e che ora si vede costretto in una coatta organizzazione dei ruoli. Le prescrizioni da rispettare durante il pe¬riodo del lutto aiuterebbero ad elaborare la perdita non solo perché agiscono ad un livello individualistico, per ciò che concerne l'individuo superstite, ma anche perché, ad un piano più ampio, investono la cellula sociale.

Tutti i riti coinvolgono l'individuo e con questo l'intero gruppo. Sono l’espressione di una soggettività che si concede alla comu¬nità, ma allo stesso tempo l'acquisizione di un linguaggio collettivo che Il soggetto decide di adoperare.

Queste immagini dunque, in quanto elementi di un rito ben definito, rappresentano un accordo tra il singolo e la sua comunità, stanno lì a testimoniare che l'individuo vuole condividere il suo dolore e che il suo estinguersi porterà gio¬vamento all'intera collettività.

Occorre, tuttavia, non generalizzare troppo, in quanto le epoche e i contesti sociali fanno emergere, di volta in volta, nuove forme di convivenza che si manifestano in diversi vissuti di partecipazione. Il centro attivo di una condivisione che poi si riflette nell'intera organizzazione sociale, può essere occupato ora dal senso del divino, ora dal nazionalismo, ora da un sentimento d'appartenenza più ristretto come i legami di parentela.

La società si sagoma, nella storia, a modello di queste forme di convivenza che secondo le culture e le epoche emergono con maggior forza rispetto ad altre alternative di contrat¬to. Resta dunque da vedere, nell'arco di tempo in cui queste foto¬grafie hanno registrato il maggior successo, quali forme di comunità abbiano fornito alla società il prototipo cui riferirsi e di conseguenza l'orizzonte circoscritto in cui queste immagini svolgono una funzione ricostituente.

In quanto parte del rito funebre, questi scatti mirano a restituire alla comunità la solidità minacciata dalla scom¬parsa di un suo componente. Ma a quale comunità dobbiamo riferirci?



L'esposizione dell'opera di un grande pittore e fotografo, Robinson, "Fading Away", offre un curioso punto di partenza per rispondere alla domanda.

Quando nel 1858 egli espose il suo celebre fotomontaggio, il pubblico e la critica reagirono con sdegno eppure la morte non era affatto un tema taciuto.

Secondo F. Muzzarelli, a destare scalpore era l'utilizzo di un apparecchio fotografico, preciso, inci¬sivo, apparentemente infalsificabile e ontologicamente differente da qualsiasi restituzione pittorica. Se l'iconicità pittorica non ha mai offeso nessuno, neppure nell'ostentazione della nudità, il realismo fotografico è invece sempre stato bersaglio di un costante pregiudi¬zio poiché non si limita a rappresentare, ma presenta il suo soggetto attraverso la nuda imparzialità delle sue lenti. È questa nuda verità che rende la fotografia così potente e pericolosa ed è su questa nuda verità che si giustificò la critica quando l'intese oscena (nonostante si trattasse di un dichiarato fotomontaggio).

Ancora una volta un'immagine fotografica dimostrava quanto non fossero i soggetti, in questo caso la morte, ad essere occasioni di sconcerto, ma la brutale esibizione della realtà della fotografia stessa. [Muzzarelli, 2007]



Eppure in quegli stessi anni nelle singole case era già diffusa, tra le mura, nel privato, la fotografia post-mortem. Ma, appunto, si trattava di un fenomeno tanto diffuso quanto celato da riservatezza.

Robinson, con "Fading Away”, osa irrompere nel privato per calarlo nel sociale.

È come l’irruzione della pornografia nel società, che, quando scandalizza, lo fa non tanto per le immagini in sé, vissute, conosciute, nell’intimità della coppia e delle fantasie erotiche, ma soprattutto per la sua nuda faccia esposta al pubblico.

Prima di “Fading Away”, la fotografia del morente, o del defunto, come si scriveva, era un fenomeno diffuso, ma contestualizzato alle mura domestiche. Certo, chiunque entrava, parente o amico o sconosciuto che fosse, ne aveva libera visione, ma solo previo permesso dei proprietari di casa. Robinson salta il permesso e mette in piazza la fotografia post-mortem.

Lo scandalo che ne deriva, suggerisce che, all’epoca (prima metà del XIX secolo), la morte, e la fotografia post-mortem, erano consuetudine da vivere nel privato.

È solo la comunità familiare che sì giova del contributo di una tale espres¬sione luttuosa ed è su questo ritrovato equilibrio che la comunità modella la sua stabilità.

C’è, dunque, si noti, bene, una grande differenza rispetto ai nostri tempi, in cui la morte è invece allontanata dalle mura domestiche per essere affidata alle istituzione sociali (ospedali, case di riposo, etc.).

Su questo tornerò successivamente.

Qui voglio solo sottolineare un dato.

Che anche prima, la morte era un evento sociale e non della singola famiglia.

Sarà a partire dal '700 fino alla primissima metà del '900 che l'istituzione famigliare diverrà la cellula fondamentale dell'ordine sociale e che dunque questi scatti, socialmente definibili nella loro funzione, assumeranno un ruolo decisivo all'interno della sua narra¬zione.

L'elemento fondamentale del loro apporto riguarderebbe il tributo che sembrano fornire alla solidità famigliare minacciata dalla morte di un suo componente.

Noi contemporanei siamo soliti datare le nostre fondamenta con eccessiva generosità e così il sentimento di pietà famigliare, che viviamo come assunto fondamentale di una concezione della vita religiosamente vissuta, siamo portati a pensarlo antichissimo. In realtà la concentrazione degli affetti nel circuito famigliare è l'espressione di una mentalità moderna relativamente recente che lo storico Ariès non ha mancato mettere in luce.

Una nuova immagi¬ne del rapporto tra individuo, morte e famiglia, emerge dallo studio comparativo svolto dallo storico francese sul mutare delle clausole testamentarie; per cui può dire:

Fino al XVIII secolo, la morte riguardava colui che ne era minacciato, e lui soltanto. Così a ciascuno spettava espri¬mere da sé le sue idee, i suoi sentimenti, le sue volontà. Per questo disponeva di uno strumento, il testamento.

In sintesi, come Ariés spiega bene, allora si trattava di uno strumento che non aveva diramazioni di interesse verso familiari. Il testamento era tutto incentrato sulla propria persona, e soprattutto abbondava di raccomandazioni, ordini, sulla funzione religiosa, sulla sepoltura, sulle preghiere da recitare costantemente all’anima.

Era, insomma, un testamento che si proiettava nel sociale, ma saltando i propri cari, come se l’esecutore fosse solo preoccupato di quello che gli sarebbe accaduto dopo, e di avere il giusto sostegno sociale nel suo viaggio e dimora nell’aldilà.

Di fatto il testamento, sotto questa forma, rivela una diffidenza, o almeno un'in¬differenza, nei riguardi degli eredi, dei parenti prossimi. E del clero. Mediante un atto deposto presso notaio, quasi sempre firmato da testimoni, il testatore for¬zava la volontà di quanti lo circondavano, il che significava che altrimenti avrebbe temuto di non essere né ascoltato né obbedito (Ariès, 1975].

Dal XVIII secolo in poi, assistiamo a un cambiamento.

Il morente si abbandona, anima e corpo, alla sua famiglia. La scomparsa delle clausole sentimen¬tali e spirituali dal testamento è il segno del consenso del malato o del morente a tirarsi da parte e ad essere preso a carico della famiglia.

Il testamento divie¬ne come noi oggi l'intendiamo (un atto di distribuzione del patrimo¬nio). Questo cambiamento è in parte conseguente a quel processo di “scristianizzazione” della cultura messo in moto dalla modernità e dal pensiero positivista, ma forse è possibile, con Ariés, leggervi anche altro: il segno di una rivalutazione dell'unità e del senti¬mento familiare e con questo un'altra prospettiva di relazione tra l'individuo, la morte e la famiglia.

L'importanza dell'istituzione famigliare si evince anche dalla na¬scita e la crescita delle tombe di famiglia ,che accompagnano lo spostamento dei cimiteri alle porte delle città, o ancora dalla crescita degli accorati epitaffi disposti dalla famiglia a commemorazione del defunto.

La tomba è il luogo e la morte l'evento della tradizione familiare.

È poi curioso che la stessa diffusione della fotografia cresca in relazione al crescente culto famigliare. Il bisogno di fotografare il morente si accompagna alla mancanza diffidenza dello stesso verso i proprio parenti: non ha più bisogno di garanzie legali, di testimoni, di notai, per assicurarsi il rispetto delle sue volontà.

Si capisce, pertanto, quanto in questo cambiamento la fotografia post-mortem assuma la funzione di documentare la storia personale dell'intimità familiare, diventando parte delle strategie di conservazione dell'unità familiare. Sono gli eventi che la famiglia riconosce fondamentali alla sua definizione che segnalano l'ambito circoscritto del fotografabile e che di fatto vengono fotografati, tra¬mandandoci così l'immagine di sé che la famiglia stessa ha deciso di concederci; in questo modo essa non lascia semplicemente la sua traccia ma soprattutto ci restituisce il segno indelebile della sua au¬toconcezione.

Scrive P. Bourdieu:

L'album di famiglia esprime la verità del ricordo sociale. Niente è meno simile alla ricerca autistica del tempo per¬duto di queste presentazioni commentate dalle fotografie di famiglia, rito d'integrazione che la famiglia fa subire ai nuovi membri. Disposte in ordine cronologico, ordine delle ragioni della memoria sociale, le immagini del pas¬sato evocano e trasmettono il ricordo degli avvenimenti che meritano di essere conservati perché il gruppo vede nei monumenti della sua unità passata un fattore di unificazio¬ne o, il che è lo stesso, perché trae dal passato la conferma della sua unità presente [Bourdieu, 1965]

L'album di famiglia diventa il luogo della propria memoria storica generazionale e transgenerazionale, lo spazio infinitamente dilatabile del proprio passato quanto l'orizzonte degli avi che dalla loro lon¬tananza ci tramandano la presenza consolidante di un contributo che i superstiti continuano ad avvalorare.

La famiglia non solo si ricono¬sce in queste raccolte, ma pure si costruisce a partire dall'immagine di se che vuole tramandare, cioè immortalare fotograficamente. E soltanto uno strumento come la macchina fotografica, che richiedeva un investimento economico relativamente basso, poteva garantire alla media e piccola borghesia di autocelebrarsi.



Così, chiamata a farlo, mise in scena quelli che erano i suoi valori fondamentali: l'onestà, il lavoro, la famiglia. La tradizione.

Il dispositivo fotografico, sia esso il dagherrotipo o le moderne fotocamere digitali, accompagna e registra tutte le tappe che definiscono i mutamenti famigliari (nascite, feste, sacramenti, morte) per costruire una narrazione degli ideali in cui la famiglia crede e non soltanto per fornire alla memoria un facile recupero del proprio tempo passato.

È il terreno del fotografabile che rivela a noi contemporanei la struttura fondamentale della famiglia e il suo senso d'unità. Espresse in questi sim¬boli, le fo¬tografie post-mortem, a cavallo tra i due secoli trascorsi, occupano una posizione rilevante.

Non è una rarità imbattersi in fotografie post-mortem che paio¬no essere impropri ritratti familiari. Tale impostazione iconografica rivela che la famiglia c'è e c’è anche il defunto, perché sia chiaro che anch’egli è presente, presente in quanto cadavere, in quanto spirito, in quanto anima disincarnata, in quanto fulcro originario dell'intera stabilità.

Un esempio è dato dalla foto, risalente al 1858, in cui un uomo è seduta accanto alla moglie, su un divano. La sorregge con un braccio, circondandole le spalle in amorevole gesto, perché la donna è morta. In questa foto l'amore coniugale testimonia l’ostinata volontà a veder perpetuato un legame che invece la morte nega definitivamente. “Fino a che morte non ci se¬pari”: ecco il sussurro che si ode in quest'immagine.

La morte di un componente della famiglia non solo costringe ad un dolore così intenso da inco-raggiare, perché si estingua, la coesione e la collaborazione di tutti, ma pure richiama all'urgenza di dover restituire al defunto una sua funzione.

In questi momenti la famiglia ritrova il suo centro. Morto un parente i superstiti si riuniscono, quelli lontani ritornano;¬quelli vicini si abbracciano, le riunioni e i compianti rinsaldano i legami.

L'intero nucleo famigliare si vede costretto a recuperare, con l'aiuto di tutti, una nuova solidità perché il vuoto che il morto restituisce deve in qualche modo essere col¬mato.

Ma, attenzione, non si tratta soltanto di capire che la morte è un evento che, destabilizzando, sollecita l'unità, ma principalmente di accettare quest'unità ritrovata come un contributo fornito dalla presenza dell'estinto.

È il restare della sua influenza che permette al nucleo fami¬gliare di resistere e ritrovarsi ed è questo restare, non solo nei ricordi ma nei tracciati, nei comportamenti di tutti, che è simbolicamente permesso ed espresso dalle fotografie post-mortem.

Il legame che unisce i concetti di morte, famiglia e fotografia può essere indagato anche a partire da una prima analisi iconografica.

Poi avviene un altro fenomeno, che nel tempo prende posizione.

La spedizione della foto.

Spedire le immagini ad amici e parenti segna da un lato il primo passo verso una socializzazione non solo della morte, ma del morto, del dolore dunque che accompagna la sua perdita e che si crede investa non solo la famiglia, ma tutta la schiera di conoscenti e cari, che in vita lo hanno sostenuto, ma d’altro lato rappresenta il primo esordio di una distanza, se non di un'esclusione (perché di esclusione non si tratta), o quantomeno di un primo esempio di autonomia.

Non ci sono dati a sufficienza per azzardare conclusioni, ma questo cambiamento, per cui parenti e amici non vengono più convocati al capezzale del defunto, ma è il defunto che li raggiunge tramite uno foto spedita, può essere interpretato secondo un duplice, contraddittorio binario; da un lato, la spedizione non mina l'istituzione famigliare, ma semplicemente ne allarga il concetto; dall'altro, invece, potrebbe intendere una prima germinale forma di distanza che risulterà esasperata nella nostra contemporaneità.

A suggerire un certo cambiamento di rotta negli atteggiamenti di fronte alle forme di commemorazione fotografica dei morti, non è soltanto il passaggio dalla "semplice" fotografia post-mortem alla spedizione della stessa, ma soprattutto il mutare degli schemi di ripresa.

La pratica risponde agli inizi a tutta una serie di stereotipi che a loro volta riconducono alla legittimazione del ritratto famigliare. Il corpo del defunto, o il primo piano del viso, è il centro della fotografia.

Poi, nel corso degli anni, l'interesse si va spostando dal corpo all'evento: prima la salma distesa nella bara, poi il circuito di conoscenti che la piange (a guardare le foto è questa l’impressione che danno: si piange la bara, non il corpo ormai celato all’interno), poi l'intero corteo che la segue.

Insomma, ad un'analisi delle inquadrature, sembrerebbe che l'interesse vada migrando dal defunto ai suoi parenti, dal corpo al funerale, dall'introiezione del suo statuto all'interno del circuito sempre vigile dei rapporti famigliari, a quello della sua esclusione dalla vita espressa da fastosi cerimoniali.

Questo “movimento di camera” potrebbe essere l’espressione di un lento e progressivo distanziarsi dei sentimenti di socialità nei riguardi della morte, perché se è vero che in questo modo il defunto esce dal suo scrigno familiare per socializzarsi, è anche vero che questa socializzazione non gli permette di perpetuarsi, ma piuttosto lo costringe all'esonero da ogni altra appartenenza, che non sia quella del mondo dei morti entro cui deve restare.

Il punto di ripresa si distanzia perché ad essere distante è prima di tutto l'antico senso di partecipazione alla morte, un sentimento non solo di pietà (poiché di pietà si tratta tutt'oggi), ma di matura consapevolezza della caducità umana. Si prendono le distanze non dall'estinto in sé, ma dal suo cadavere, dai lineamenti interrotti della sua passata vita perché incapaci, mantenendone l'influenza, di riprodurli nelle piccole quanto solide attività quotidiane.

Al contrario, la pratica del ritratto (ancora più se frontale) è da sempre il segno di una rappresentazione cerimoniale accordata con un rito, una forma di certificazione simbolica.

Quando giunta la maggiore età ci facciamo ritrarre per inserire la nostra immagine all' interno della carta d'identità, stiamo compiendo un gesto altamente simbo¬lico dove la fotografia non solo assume un ruolo pragmatico e fun¬zionale (perché registra i nostri tratti in favore del controllo sociale), ma offre anche un contento simbolico, si fa cioè strumento di un rito, portavoce di un simbolo, quello della maggiore età.

I primi esempi di fotografia post-mortem presentano l'estinto in primo piano, talvolta come dormisse o addirittura ad occhi aperti, impegnato in qualche attività quotidiana come fosse ancora vivo.

Dopo, invece, è deposto nella bara e ritratto assieme a tutto il corredo funebre, impedendo così qualsiasi illusione di vita, ma, soprattutto, uscendo in questo modo dall'isolamento estetico e familiare del primo piano.

Il ritratto ha un grande potere simbolico, perché presenta i tratti caratterizzanti dell'individuo, perché ci restituisce la sua faccia, la sua identità, la sua consapevolezza. Nel nostro caso, quello delle fotografie post-mortem, non sipuò certo parlare di consapevolezza esibita né tanto meno di accettazione di simboli socialmente condivisi (il soggetto è defunto), ma si può comunque rivolgersi ad una forma di rituale, garanti¬to e voluto dai superstiti ed indirizzato, contemporaneamente, alla comunità che li accoglie e allo spirito del morto.

Decentrare la sua presenza, distanziarlo, riprenderlo nel suo ambiente, sembrerebbe rappresentare l'inizio della fine, suggerendo un progressivo allontanamento dei familiari dal proprio caro estinto. La fotografia così si limita a registrare non la morte, ma l’evento che ad essea consegue (funerale, etc.). È come se il soggetto della fotografia non fosse più il cadavere, la salma, il morto, ma il suo stesso funerale.

Ci stiamo avvicinando, in questo senso, alla funzione che comu¬nemente si accorda alla fotografia e vale a dire quella di registrare la realtà dei fatti, il più fedelmente possibile, per recuperarla ogni qual volta la memoria perda la sua lucidità. È evidente che la differenza che fino ad ora abbiamo rilevato tra l'uso comune della macchina fotografica ed il particolare utilizzo che caratterizza questa pratica, è rappresentata proprio dalla differente finalità che si propone, ed è altrettanto evidente che se questa differente finalità viene ad essere elusa, cedono tanto le strategie di recupero di certe simbologie, tanto i loro benefici.

Credo dunque sia lecito leggere in questi ultimi esem¬pi di rappresentazione del cadavere una profonda inversione di rotta che trova conferma nei cambiamenti culturali rispetto i morti della società contemporanea, in cui la morte diventa un tabù familiare e persino sociale.

Di questo aspetto mi occuperò nella seconda parte.


dicembre 2010

                                           Giovanni Sicuranza, medico legale

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