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Occhi nella nebbia [i racconti della vista]

Occhi nella nebbia 
Giovanni Sicuranza


E' lì, davanti a me, il volto di chi ha trovato la risposta che riempie ogni domanda.

Dopo quanto tempo, mi chiede una voce colorata di compiaciuta ironia.

perché

sa che ho capito e finalmente

Ho Deciso.

Scrollo le spalle inducendola a tacere, prima che cresca rendendosi ridicola.

Settimane, mesi.

Ha forse importanza?

Il sole che nasce e muore per poi risorgere freddo all'orizzonte non è che un patetico riflesso sul buio delle nostre vite.

Ricordi e speranze, deserti pianeti che lo seguono timorosi.

Lontani.

Osservare gli occhi della donna scolpiti nella disperazione, lasciarsi catturare da quello sguardo che cerca risposte confusamente mormorate alla mia anima caduta: sono queste le uniche ragioni che mi hanno spinto a tornare nel parco pubblico di una città incapace di spegnere l'urlo che echeggia nei lunghi corridoi della mia mente. Disperso.

***

Cominciò ad interrogarmi, all'improvviso, in una grigia mattina di autunno che distratta vegliava sul parco deserto.

Illudendomi di trovare un po' di pace, mi ero rifugiata su una panchina di marmo, pesante come i miei pensieri, fredda come i volti della gente che non aveva più parole da donare.

Nemmeno la donna parlò, eppure attraverso i suoi occhi udii chiara la domanda che aveva accompagnato il mio passato e che da allora mi guida su quella panchina.

Le sue palpebre erano labbra catturate nell'attimo culminante della domanda; le piccole pupille, nere parole fermate dall'eternità.

Un viso magro, sfiorato da lunghi capelli che cadevano spenti su spalle malinconiche, era la cornice naturale per quegli occhi.

***

La lapide che sorreggeva la foto della donna ne indicava anche il nome, ma ogni volta freschi fiori di campo posti da mani ignote ne impedivano la lettura e mai io osai spostarli.

Ora che in quella foto avevo trovato una persona in grado di capirmi, mi bastava sedere e abbracciarne silenziosa lo sguardo.

Sapere come la donna fotografata fosse morta, perché avessero costruito una lapide commemorativa proprio di fronte alla panchina sulla quale ricordavo l'unica verità della mia vita perduta, era importante nella prospettiva di dare risposta ad un interrogativo semplice, terribile:

perché?

Questa era la sua domanda.

Questa era stata la mia domanda.

***

Mentre le foglie ingiallite volteggiavano stupide nell'aria, mentre la pioggia indiscreta tormentava il mio corpo malato o il sole riscaldava illusorio la superficialità che mi circondava, sentivo lo sguardo della donna nutrirsi del mio passato e invocare una soluzione nel gesto che aveva segnato per sempre il mio destino.

Eppure, mi dicevo smarrita, poteva la mia risposta essere anche la sua?

Con questo dubbio tornavo nell'umido monolocale concessomi dal mio medico in sub- affitto per tutto il periodo necessario a ristabilirmi e chiudevo la porta sui versi bestiali della città.

Ma lo struggente richiamo di quegli occhi infranti riusciva ugualmente ad entrare.

Così, mentre la città si addormentava crudele ed estranea, il dubbio diventava mio amante pretendendo notti insonni.

Ogni tanto il mio medico telefonava dalla sua villa in campagna, credendo di aiutare la sua paziente con frasi da manuale e, più di questo, per sincerarsi dal mio tono di voce che una crisi di nervi non stesse mettendo a rischio la sua umile dimora e la sua sontuosa reputazione.

Io, come già accaduto, riuscivo a recitare bene la parte della donna serena, senza lasciar trapelare il minimo accenno al sottile tormento che stavo assaporando.

In realtà, anche mentre al telefono ridevo e conversavo amabilmente con il mio affettuoso psicanalista, continuavo ad essere nella defunta e a chiedermi fino a che punto potessi fare sua la mia risposta.

Allora tornavo nel parco, mi sedevo sulla panchina e nella foto nuda di colori ritrovavo la sofferenza della domanda:

perché?

Non sapevo perché.

Non lo avevo mai saputo.

***

Un giorno avevo però capito che continuando a chiedermelo non avrei cambiato al realtà.

Semplicemente sarei morta.

***

Questo cercavo di rispondere alla donna della foto, eppure lei insisteva a guardarmi con occhi supplicanti

perché?

fino a quando non sentii il suo sguardo unirsi completamente al mio e seguirmi ovunque, dolce e terribile, nella notte e nel giorno, nella veglia e nel sonno.

Turbata, mi allontanavo dalla panchina vedendo i ricordi vestirsi a lutto e reclamare azione per la donna, per me, prigioniere di una domanda tanto forte da renderci incapaci di vivere.

Vagavo nell'incubo delle anonime vie della città, ma la meta era sempre il parco, dove mi risvegliavo seduta sulla panchina solitaria per rassicurare quello sguardo che avrei desiderato agire di nuovo, che ormai capivo che solo tramite la mia mano sarebbe terminato il lungo lamento.

Eppure ancora non sapevo come muovermi e giorno dopo giorno aspettavo un piccolo segno.

Chi poteva parlarmi della donna?

***

Le persone incontrate nel parco mi evitavano con occhiate apparentemente divertite. In realtà vedermi ogni volta immobile, catturata dalla foto, doveva spaventarle. Non era certo un caso che la panchina fosse sempre libera.

Ma questo non aveva importanza.

Notavo invece con interesse come i fiori che ornavano la lapide fossero sempre freschi. Anche se ancora non ero riuscita a scoprire chi, qualcuno certamente se ne prendeva cura.

***

Fu un giorno in cui la nebbia aveva avvolto il parco in un freddo sudario che compresi fino in fondo quanto i nostri destini fossero legati.

Lentamente, in quel mondo sospeso, tornavo alla mia panchina, quando scorsi un ombra inginocchiata davanti alla lapide.

Mi avvicinai in silenzio e l'ombra prese la forma di una bambina che donava nuovi fiori alla grigia pietra.

Non mi udì arrivare ed io mi sedetti, osservandola stupita, mentre mi chiedevo se poteva essere lei la vera risposta cercata dalla donna defunta.

Sospirai, schiacciata dal peso del compito che in tal caso mi avrebbe aspettato, e la bambina si voltò, spaventata.

Mi affrettai a sorriderle.

- Non scappare. - mormorai.

Lei si guardò intorno, smarrita, poi i suoi grandi occhi chiari tornarono a me.

Fu un sollievo scoprirli così innocenti, puri. Non era certo lei la risposta.

Ma poteva essermi d'aiuto. Forse.

- Mi dispiace averti spaventata -

Sentire la mia voce nascere dagli occhi della donna e non dalle mie labbra, mi sembrò naturale.

Forse la bambina non se ne rese conto, perché continuava a guardarmi curiosa, apparentemente più rilassata dal mio sguardo benevolo.

- Sei tu che porti i fiori sulla lapide, vero? -

Lei abbassò gli occhi e boccoli confusi calarono come un sipario sul suo piccolo viso.

- E' un gesto molto bello - aggiunsi dalla foto della donna.

La bambina rifugiò lo sguardo sulle sue scarpe, nere come i disordinati capelli e il largo cappotto indossato e l'atmosfera che vestiva il parco. Poi parlò, piano, delicata, e la sua voce giunse trasportata dalle pigre onde della nebbia.

- Lei mi voleva bene. Voleva bene a tutti i bambini che giocano nel parco. Era divertente con noi. Ma aveva sempre quell'aria triste -

Mi lasciò sola, esitando tra i ricordi, proprio mentre un tuffo al cuore mi portava il sorriso del mio figlio perduto.

Un lungo istante.

Poi continuò

- Si sedeva sulla panchina dove sei tu adesso e a volte ci portava dei regali e cibo per gli scoiattoli e… - un singhiozzo sorprese il suo debole corpo - Mi raccontava le fiabe, sai? I miei genitori, loro no. Lavorano, non hanno mai tempo per me. Quando tornano a casa sono stanchi e io guardo la televisione. Le sue fiabe erano un'altra cosa… - un nuovo singhiozzo ed io sussultai con lei vedendo il mio bambino riverso sulla rampa delle scale, il collo spezzato, mentre mio marito, quell'uomo, mormorava che era stato un incidente, solo un maledetto, ridicolo incidente.

- Come è morta? - chiesi e proprio in allora mi resi conto che già conoscevo la risposta.

La bambina sollevò lo sguardo e fissò un punto invisibile oltre l'uscita del parco. La sua voce era una cantilena lontana, perduta nella malinconia.

- Il marito è sempre al bar, lì, di fronte. Beve tutto il giorno da quando la signora non c'è più, ma una sera fingevo di dormire e ho sentito papà e mamma dire che lei è morta per colpa sua. La picchiava -

I suoi occhi cercarono improvvisamente i miei. Lacrime pesanti solcavano il viso.

- L'abbiamo voluta ancora con noi e a turno le portiamo i fiori. Era tanto buona, ma suo marito la picchiava. Perché? -

Il vento si sollevò a tradimento per rapire i sogni innocenti che fuggivano dalla bambina.

- Tu lo sai il perché, signora? -

Rimasi in silenzio, incapace di dare voce alla tempesta dei miei sentimenti, e la piccola si allontanò veloce, piangendo.

La guardai fino a quando la nebbia non la cancellò, poi mi alzai e mi avvicinai alla lapide.

Perché?

ripeterono gli occhi della donna.

Perché?

Annuii, triste.

Ora avevo tutte le risposte e sapevo cosa fare.

***

La nebbia si è diradata, la gente è tornata al parco e mi evita bisbigliando.

Il sole cade spento su tanta superficialità.

La voce ironica tace nella mia testa, mentre mi dirigo verso l'uscita con passi fermi.

Decisi.

Ho sposato un mostro che mi ha picchiata, violentata, resa schiava della sua stupida volontà. Quando l'ho conosciuto sapeva donarmi dolcezza e una parvenza di amore, ma dopo il matrimonio si è trasformato.

Il mio psicanalista dice che può capitare, l'importante è trovare poi la forza di dimenticare.

Rientro nelle statistiche.

Dovrei consolarmi, no?

Ogni volta che alzava le mani su di me, ogni volta che violava il mio corpo, ogni volta che con un'occhiata carica di disprezzo mi vietava di uscire dalla casa dove ero reclusa, mi chiedevo

perché?

Per tanti anni questa domanda è stata la mia unica compagna.

Poi è nato mio figlio, bello, dolce, e lui lo ha ucciso con uno schiaffo che ha spezzato il suo fragile collo e la mia alienante schiavitù.

Ho smesso di chiedermi perché.

Ho preso un coltello da cucina e ho agito.

L'ho colpito per ogni istante in cui aveva annullato la mia vita, per ogni giorno in cui non sarei più cresciuta con mio figlio.

Per tre anni mi hanno rinchiusa in una clinica, ho ascoltato un sacco di stupide chiacchiere su come uscire dalla mia ossessione e ho visto uomini e donne vestiti di bianco pagati per recitare la parte di chi avrebbe dovuto aiutarmi.

Tutto tempo sprecato.

Da quel giorno ho capito che la risposta alla domanda è andare oltre la domanda.

Questa città caotica mi rifiuta, ma non importa.

Il sentimento è reciproco ed io so cosa va fatto.

Ora e sempre.

Il gelido contatto della lama del coltello nascosto nella tasca del cappotto è una sensazione intensa, che assaporo dopo anni di solitudine.

C'è un solo bar di fronte al parco e un solo uomo rimarrà tutto il giorno a bere.

Il tempo non ha senso ed io posso aspettare.

So fingere se voglio.

L'insegna luminosa è vuota e fredda come l'espressione dei clienti che vedo entrando.

Sorrido.




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