“Lungo il vento” (2009), Giovanni Sicuranza.
Romanzo dalla Resistenza ad oggi. Lungo un soffio di morte.
Per approfondimenti:
Estratto dal romanzo.
[...]
È strana questa foschia. Gomitoli grigi che rotolano lenti lungo il pendio dei monti, che sembrano fatti apposta per celare le piante, i sentieri.
Il nemico.
Il sottotenente Federico Celesti è in piedi da molto tempo, davanti alla finestra. Le mani unite dietro la schiena, se ne sta così, ad osservare queste nuvole che strisciano al suolo.
In un clima di attese, lui attende.
Da qualche giorno gli ordini dai vertici della II Armata si sono inspiegabilmente diradati e il suo plotone sembra abbandonato ad un destino di sopravvivenza. Come il resto della Compagnia. E forse tutta l’Armata del Regio Esercito.
- Siamo messi male – mormora Celesti al vetro della finestra, velandolo d’alito – Siamo messi proprio male – lo sguardo tenta invano di penetrare la foschia – Forse sei qui per annullarci del tutto.
L’uomo esita ancora un istante, come in attesa di una risposta, poi si gira, si siede alla scrivania. E aspetta.
Le mani sfogliano i rapporti delle squadre, in gesti automatici, senza che gli occhi leggano. Sono ancora lontano, gli occhi, in un territorio pieno di grigio.
Da quando hanno occupato la Jugoslavia a fianco dell’esercito tedesco, anzi, soprattutto grazie all’esercito tedesco, per i soldati italiani sono cominciate le rogne.
Le dita si stringono sui lembi di un foglio e lo soffocano in spirali di carta.
Questi ribelli, questi banditi spuntano ovunque. Escono dai boschi, colpiscono, e tornano ai boschi. E più lui dà ordini di catturarli, di massacrarli, più loro aumentano. Bel posto, gli hanno dato.
“Andremo in Slovenia”, gli aveva riferito il capitano della Compagnia, “Abbiamo l’alto compito di italianizzare la regione. La popolazione allogena deve essere piegata al nostro pensiero”.
“Signorsì”.
“Dica agli uomini del suo plotone di prepararsi. Domani si parte, insieme agli alleati. Entro un mese la nuova provincia di Lubiana sarà italiana”.
“Signorsì”, aveva ripetuto il sottotenente Federico Celesti, ma già il fatto di penetrare nei territori sloveni a fianco dei tedeschi gli era sembrato motivo di pessimismo. Perché ormai era chiaro a tutti loro che il grandioso Regio Esercito non riusciva a conquistare nulla senza l’aiuto della Wehrmacht.
Era il 1941, allora, e all’euforia di avere conquistato la Croazia e la Slovenia, era subito subentrato una tensione causata dalle incursioni dei ribelli, quelli che si definiscono “partigiani” e che null’altro sono se non banditi, feccia per lo più comunista. Da allora ad oggi sembra che questi gruppi siano diventati più numerosi, più temerari. Più aggressivi.
Celesti strappa una pagina di verbale, le palpebre che si socchiudono, gli occhi che diventano piccoli.
Una settimana prima una squadra del suo plotone è stata attaccata, in paese addirittura. Un agguato vigliacco in cui erano morti quattro soldati italiani.
Per questo il suo ordine, datato 7 settembre 1943, è stato semplice: vendetta.
E all’alba del giorno dopo, le due squadre dei sergenti Benfatto e Liberato sono partite verso il paese.
Celesti sbircia l’orologio a parete. Ormai è pomeriggio inoltrato, dovrebbero già essere tornate. Vittoriose. Con i prigionieri.
Invece nulla, solo foschia, foschia densa, foschia e silenzio.
Solo in questo momento il sottotenente si accorge delle sue mani, artigli che lacerano i verbali.
- Calmati – si dice, ad alta voce – Rilassati. Andrà tutto bene.
Del resto, si fida delle capacità dei sergenti; di Liberato, soprattutto.
Celesti soffia nel tentativo di espellere la tensione e si accascia sulla sedia.
Ascanio Liberato, il suo amico di infanzia. Sono cresciuti insieme, tra i campi e i monti di Magnanimo, ed insieme si ritrovano a combattere tra i campi e i monti di una terra che li rifiuta. Eppure entrambi si sono arruolati nel Regio Esercito nella convinzione della potenza della Patria, del Duce e del Re, nell’ideale di onore e gloria in nome di una Grande Italia.
Certo, Federico ha fatto carriera, fino al grado di sottotenente, ed è convinto di potere arrivare oltre, almeno fino al grado di generale di Brigata, non fosse per questi infidi ribelli che lo costringono ad una continua strategia difensiva.
Ascanio, invece, si è fermato al grado di sergente ed ora è un suo subalterno. Ma ad Ascanio va bene così, Federico lo conosce bene. Il suo amico è un modesto senza ambizioni, lo ha sempre dimostrato nelle scelte della vita.
“Sei basso non solo di statura, ma anche di prospettive”, lo prendeva in giro Federico, “Stiamo vivendo in un grande periodo. L’Italia ruggisce e tu miagoli”.
Certo, bisogna anche riconoscergli acume, ne ha dato prova. Ad esempio, quando è riuscito ad acquistare il podere più vasto della vallata. O quando ha conquistato il cuore di Anita, la donna più bella di Magnanimo.
La donna che doveva essere sua.
Il sottotenente Federico Celesti ha un sorriso amaro, mentre pensa alle cose che Ascanio non conosce.
Colpi alla porta, brevi, in rapida successione.
Celesti rimane a sedere.
- Avanti, sergente.
Liberato compare sull’uscio, in posizione d’attenti.
Celesti fa un cenno infastidito con la mano.
- Chiudi la porta e lascia perdere le pose da bella statuina.
Ascanio annuisce ed esegue. Quindi si avvicina alla scrivania, lo sguardo oltre la finestra.
- Brutto tempo, eh?
- Pessimo, signore.
- Ascanio … - lo rimprovera bonariamente il sottotenente.
- Un tempo di merda, Federico.
I due uomini si guardano, un attimo, poi sorridono, in quel sincronismo dettato dalla complicità.
Federico si alza e si dirige verso il mobile sotto il ritratto di Mussolini. Quando si volta verso l’amico, stringe una bottiglia scura.
- Questo è forte – annuncia, alzandola all’aria. La luce che arranca dalla finestra la veste di nero – Liquore dei nostri amici germani!
- Sbaglio, o sei ironico?
Federico scuote la testa, mentre il sorriso diventa più largo.
- No, Ascanio, vedi che la tua prospettiva è piccola. Non sei solo …
- … basso di statura – sospira l’altro – Ho capito. E allora?
- Allora non sono ironico, ma amareggiato. Senza i potenti fratelli della Germania, mi sa che qui noi saremmo fango da un pezzo.
- Questo si chiama disfattismo – fa notare Ascanio, ma ora anche il suo sorriso è più profondo.
- Lo so – Federico torna alla scrivania e svita il tappo della bottiglia – Per questo ne parlo con te. E tanto – una smorfia di disgusto quando porta il tappo al naso – il nostro comando generale tace da un paio di giorni. Insomma, fa schifo come questo liquore.
- I cari fratelli di Germania ti avranno dato roba scaduta, al solito. Il meglio va sempre a loro, no?
Il sorriso appassisce sul volto di Celesti.
- Già, come i territori della Jugoslavia. E quelli della Grecia – gli occhi diventano duri, fissi in quelli dell’amico – Il liquore a dopo, sergente. Prima voglio il rapporto sul rastrellamento.
Ascanio stringe le labbra.
Federico stringe gli occhi.
- Cosa significa? – esita – Hai fallito?
Ascanio è pronto a tranquillizzarlo con un cenno negativo della testa.
- Allora? – Federico comincia a sentirsi sulle spine – Parla, sergente Liberato! Ha fallito la squadra di Benfatto?
- No – una pausa – No, signore – ripete Ascanio, tornando sulla posizione di attenti.
Celesti si siede e apre le braccia.
- Bene, sembra che debba cavarti le parole di bocca! Dov’è il sergente Benfatto?
- Sta sistemando i prigionieri, signore.
Le palpebre di Celesti si aprono del tutto, gli occhi che brillano, soddisfatti.
- Ah, ottimo, ottimo! Ben fatto!
- Abbiamo prelevato venti uomini di giovane età, signore, scelti tra i più robusti del paese.
- Era il vostro obiettivo – la voce di Celesti si abbassa, cauta – Allora perché quella faccia, sergente?
L’altro stringe ancora le labbra. Il sottotenente sospira, poi indica la sedia dall’altro lato della scrivania.
- Siediti e sputa tutto, Ascanio. Veloce, però. Lo sai che dobbiamo agire in fretta per dare una lezione a quei briganti.
Ascanio sposta la sedia al suo fianco. Le gambe di legno bisbigliano, mentre scivolano sul pavimento di cotto.
- Ecco, signore – inizia, mettendosi seduto – Cioè, Federico…
- Dimmi – lo esorta l’amico, sporgendosi su di lui.
- Io credo – Ascanio deglutisce – Io credo che fucilarli sia un errore.
Federico non parla. Continua a guardare l’amico e l’unica espressione che gli concede è a metà strada tra il sorriso e il sogghigno.
Allora Ascanio capisce che ormai deve andare fino in fondo. A qualsiasi costo.
- Anzi, un crimine, signore. Insomma, credo che abbiamo prelevato dei civili innocenti. Non c’erano armi nelle loro abitazioni, sono tutti contadini e non si sono mai schierati con i ribelli.
Il sogghigno conquista posizione sul sorriso amichevole di Federico.
- Tu credi, Ascanio? Credi, amico mio? I nostri soldati sono stati attaccati e uccisi in quel paese! Non importa individuare i veri colpevoli, capisci? - Federico scuote la testa, incredulo di fronte all’ottusità dell’amico - Noi dobbiamo lanciare un avvertimento a quei bastardi! E a tutta la popolazione che ci rifiuta!
Ascanio deglutisce ancora, le mani che iniziano a sudare.
- Ma è proprio per questo che ci rifiuta. In questo modo ci comportiamo come i nostri alleati. Rastrelliamo innocenti e li massacriamo in pubblico!
Il pugno esplode sulla scrivania. Il sottotenente Celesti scatta in piedi, gli occhi sbarrati sul milite.
- Come ti permetti, sergente? I tedeschi puniscono per strategia, noi lo facciamo solo perché siamo costretti.
In qualche modo, Ascanio riesce ancora a sorridere.
- Lo spieghi a quegli innocenti, signore – mormora.
Celesti si appoggia su una gamba, poi sull’altra, lo sguardo che è lama sul viso di Ascanio. Alza una mano a pugno, nella sua direzione, e per un istante rimane così, immobile, teso in una fotografia pronta a bruciare.
Ascanio stringe le mani sopra le cosce e si accorge di quanto siano scivolose di sudore.
- Sergente Liberato – sibila Celesti – Lei personalmente guiderà il plotone di esecuzione.
Ascanio comprende che l’amico Federico si è dissolto nell’uniforme.
Ma sa anche che l’ordine va contro i suoi principi.
China lo sguardo.
- No.
- Cosa? – lo investe l’urlo del sottotenente.
Ascanio chiude gli occhi. Pensa ad Anita, la sua giovane moglie, così lontana. E a suo figlio Ettore. Il suo piccolo Ettore.
- No, signore – ripete, roco.
- Sergente, è un ordine – il tono di Celesti diventa un sussurro, vicino, troppo vicino al volto di lui – Non può rifiutarsi.
- Sono solo civili, signore – Ascanio cerca di immaginare i profili del viso della moglie, ma è tutto sfumato. Pieno di foschie
– Non lo farò, signore.
Trattiene il respiro, le mani che grondano. Ma invece di una condanna, sente colpi alla porta.
- Avanti! – tuona Celesti.
Ascanio sente la porta cigolare e il suono secco degli stivali.
- Ah, sergente Benfatto.
- Signore – esordisce il nuovo entrato – I prigionieri sono tutti sistemati, signore. Ma c’è di più.
Una pausa.
- Mi illustri questo “di più” – lo esorta Celesti.
Ascanio, che continua a tenere gli occhi chiusi, percepisce l’irritazione nella sua voce.
- Abbiamo catturato due ribelli, signore. Hanno avuto la sfrontatezza di raggiungere il nostro campo.
- Bastardi – sibila il sottotenente – Li avete messi con gli altri?
Ancora una pausa.
Ascanio apre gli occhi, ora stupito dal silenzio di Benfatto.
- Ebbene? Che cosa le succede, sergente?
- Ecco, signore – inizia lui e si percepisce il suo annaspare alla ricerca delle parole – Erano armati, ma li abbiamo sopraffatti senza sparare, solo che …
- Sergente Benfatto! Le do un solo minuto per spiegarmi cosa la rende perplesso!
E poi è capace di ucciderti, pensa Ascanio.
- Non li abbiamo messi con gli altri, signore, non ancora. Pensavamo che prima volesse vederli.
- E perché mai? – tuona Celesti – Che siano fucilati con gli altri, domani pomeriggio! Ovviamente nella piazza del paese, in modo che tutti possano vedere.
- Signore – nonostante l’ira del sottotenente, Benfatto esita ancora – Dovrebbe vederli, magari hanno informazioni sui briganti. E comunque, ecco … Signore, il più grande di loro non avrà più di dodici tredici anni.
Silenzio.
Ascanio spalanca del tutto le palpebre e si gira sulla sedia. Benfatto è sull’attenti, lo sguardo fisso oltre il sottotenente.
- Dei bambini? – chiede quest’ultimo, l’incredulità che gonfia la domanda.
- Sissignore. Armati e con chiari atteggiamenti di ostilità nei nostri confronti.
Celesti si porta una mano al viso e inizia a muoverla, piano, lungo il profilo del mento.
- Vigliacchi. A questo sono arrivati – mormora, senza guardare il sergente, come se stesse riflettendo ad alta voce.
Benfatto tace.
Ascanio deglutisce.
Poi il sottotenente alza lo sguardo su Benfatto.
- Vado subito da loro – annuncia e muove un passo verso l’uscita.
Ma quello successivo è appena accennato nell’aria. Celesti si volta verso l’amico di infanzia e scuote la testa, gli occhi tristi.
- Vedi cosa succede ad essere dei disfattisti come te? I ribelli diventano più scaltri.
Ascanio abbassa ancora lo sguardo. Le mani scivolano una sull’altra.
Prima ancora di sentire l’ordine, conosce il suo destino.
- Sergente Benfatto – lo raggiunge la voce di Federico, priva di emozioni – Il sergente Liberato è in stato di arresto per insubordinazione e disfattismo.
- Signorsì - risponde pronto Benfatto.
Passi che si avvicinano al prigioniero. Una mano che si appoggia alla sua spalla, salda, senza scampo.
Ascanio si lascia prendere, floscio.
Quando è in piedi, guarda Benfatto, che subito abbassa gli occhi.
- Lo conduca in isolamento – Celesti dà le spalle ai suoi uomini, lo sguardo rivolto al ritratto del Duce – Domani il sergente Ascanio Liberato sarà fucilato insieme ai ribelli.
Quindi, il sottotenente esce dalla stanza.
E i suoi passi sono rapidi. Una scarica che echeggia nel corridoio.
***
Corpi gracili, emaciati.
Occhi grandi che si alzano subito su Celesti non appena entra nella stanza e lo fissano.
Lui si ferma, stupito dal coraggio di quegli sguardi, poi osserva i due soldati sull’attenti, ognuno accanto ad un bambino. Ne vede i volti stanchi, le palpebre gonfie, ne percepisce lo smarrimento, quindi torna a fissare i piccoli prigionieri che non battono ciglio e un pensiero lo avvolge, inaspettato.
Se anche i nostri soldati avessero questi sguardi.
- Chi siete? – chiede, duro, per spezzare la voce nella testa.
I prigionieri lo fissano. Duri.
Celesti apre la bocca, poi si avvicina a quello che sembra più grande.
Occhi che incontrano occhi. Che si studiano. Che si sfidano da pari a pari.
- Chi sei? – ripete Celesti, inquieto – Da dove vieni?
Il bambino ha una bocca sottile e chiusa. Ha il naso sporco di moccio, i capelli neri appiccicati alla fronte. E due occhi che uccidono.
I suoi vestiti sono cenci che puzzano di terra e sudore.
- Chi sono? – chiede allora Celesti, rivolto ad uno dei soldati.
Questi si irrigidisce, ma lo fa in modo strano, lentamente, come al limite della vitalità.
- Signore – mormora – Non lo sappiamo, in verità. Non parlano, abbiamo provato anche in sloveno, ma niente. Però ci hanno seguito, erano armati di fucile e …
Celesti lo interrompe con un cenno rapido della mano.
- Sì, lo so, lo so.
Torna a fissare il bambino che continua a guardarlo con rabbia e intanto fruga nella tasca della giacca, fino a quando non estrae un mozzicone di sigaretta. Fa per portarselo alle labbra, poi ci ripensa e lo offre al bambino.
È uno scatto. La bocca si apre, i denti si serrano sul polso del sottotenente.
- Merda! – urla Celesti, più per la sorpresa che per il dolore.
La sigaretta precipita al suolo.
Il soldato a fianco del bambino si muove un secondo dopo, il calcio del fucile che colpisce la tempia del bambino.
Lui libera la presa e crolla al suolo, trascinandosi dietro la sedia a cui è legato. Non un lamento dalla sua bocca, nient’altro se non il suono del legno.
- Bastardo! – ringhia allora il soldato, che sembra essersi destato dal tepore, il fucile alzato come una clava, pronto a colpire ancora.
- Basta così! – lo ferma Celesti, mentre si massaggia il polso.
Il soldato si spegne sull’attenti.
Celesti guarda l’altro bambino. Avrà forse dieci anni, ma anche nel suo sguardo c’è la sfida di un soldato che non ha paura della morte.
- Ma quanti sono? – chiede il sottotenente, in un mormorio rivolto a se stesso. È l’unica domanda che gli importa, adesso, perché si rende conto che basta una squadra di bambini così per rendere molto più difficile la vita del suo plotone.
Ne è affascinato e spaventato allo stesso tempo.
- Non lo so, signore – parla il secondo soldato – Ma circola voce di altri nostri soldati che si sono scontrati con questi maledetti. Dicono che sono delle furie e che …
Lo sguardo del bambino si solleva su di lui. Il milite muove un passo dal lato opposto, per allontanarsi, e forse nemmeno se ne rende conto.
- Signore – continua – I nostri alleati li chiamano “piccoli diavoli”.
- Non ne sapevo nulla.
Celesti si osserva il polso. L’ecchimosi con l’impronta dei denti è chiara e la pelle intorno si sta gonfiando. Quindi il suo sguardo scende al bambino sdraiato sul pavimento. Nota che stringe le labbra in una smorfia di dolore. Forse si è spezzato un braccio, ma non geme. Non parla. Continua solo a fissarlo, con sufficienza, come se i ruoli fossero invertiti. Come se la preda fosse Federico Celesti.
- Se ne parla solo tra di noi, signore – interviene l’altro soldato – Con tutto il rispetto, i Comandi non danno importanza al fenomeno. Ma sono tanti, tanti e feroci, signore. E poi corrono veloci e si nascondono meglio di un adulto.
- Sembrano lucidi – osserva Celesti, spostando lo sguardo sull’altro bambino – Non credo siano dei poveri fanatici a cui hanno fatto il lavaggio del cervello, anzi.
I due soldati si lanciano un’occhiata perplessa. Il loro sottotenente è appena stato attaccato da uno di questi bastardi, ma invece di inveire su di loro, è qui che li elogia, con tono ammirato.
- C’è una volontà forte nel loro sguardo. C’è onore, persino.
Lo sguardo di Celesti si alza sui militi.
– Ditemi, avete mai visto tanto onore nella Gioventù Fascista?
I soldati si scambiano un’altra occhiata, rapida.
- Forza – li esorta il loro superiore – È una domanda confidenziale, che non uscirà da qui.
Allora uno dei due prende coraggio.
- Io no, signore. Mai visto dei guerrieri così audaci, anzi, mi scusi, volevo dire dei bambini così audaci.
Celesti scuote la testa.
- No, soldato, hai detto bene – sorride e guarda ancora il piccolo colpito, che subito gli risponde con un ghigno – Guerrieri. Sono proprio guerrieri.
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