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I racconti del Direttore - La pipa


Buonanotte.

Ai clienti dell’albergo, questo è il saluto dovuto, con un cenno del capo, quando si ritirano nelle stanze.

Ma, come vi spiegavo, di questi tempi i clienti sono rari come le norme dell’educazione e il mio diventa un saluto per voi, ombre, che mi state ascoltando.

Le poltrone della Sala Arancione sono comode al punto che ho deciso di passare qui, e non nel loculo, le ore prima dell’alba. Si sta bene qui, anche questa notte, sapete.

Il camino, questo quadro vivo che scoppietta tra le colonne, mi rasserena, perché ha il calore dell’infanzia, sì, la mia, quando era ancora un bambino.

Un bambino vivo, intendo.

Sono nato più o meno dove siedo ora, quattro secoli fa. Ecco, guardate, se vi avvicinate qui, forse potete sentire ancora le urla di mia madre. Non morì di parto, come era frequente, allora, ma ci pensò mio padre, il Barone Franco Dracul Sicuranza, a trafiggerla con lo stiletto del camino, subito dopo la mia prima poppata.

Così mi raccontava sempre lui, mentre mi insegnava a vivere. Scherma, equitazione, tiro con l’archibugio. Caccia.

E c’era con noi, sempre, il racconto della morte di mia madre.

Oh, ma, scusatemi, non vi ho offerto il the. È che con il tempo, in effetti, la solitudine insegna a dimenticare, anche i particolari della buona educazione. Prego, servitevi come credete, io, intanto, accendo la pipa e … uhmmm … non aspiro, no, osservazione invero poco intelligente, se posso permettermi. Ovvio che non posso.

Ma il senso del gusto si affina nei secoli. In realtà io lecco la pipa. Lecco i ricordi del tabacco. Bevo il suo aroma.

C’è anche la storia di mia madre, nello stelo.

Prego, rimanete seduti. So che è tardi, ma chi altri, se non voi ombre, può fare compagnia al Direttore di un hotel disabitato?

In realtà, altre persone, che collaborano con me, ci sono. Poe, Grog, “Carabina” Arianna. Ma di loro vi parlerò in un’altra notte, se permettete.

Gradito il the? Finito tutto, noto. Io, invece, devo ancora terminare di assaporare la pipa. Per cui rimanete dove siete, per favore. Ascoltate.

Vi dicevo che c’è anche la storia di mia madre in questa pipa. C’è ovunque, in realtà.

Qui, nella Sala Arancione, dove sono nato e ora trascorro notti di terpore.

Nel bosco sul lato ovest, dove si ergono le lapidi. Se ora vi affacciate alle finestre più alte, con il riflesso della luna piena, riuscite a vedere quelle più in alto, sulla cima.

Sembrano denti biancastri. All’inizio lo facevo notare ai clienti, quando ancora l’albergo era frequentato. Poi ho notato la loro espressione, vacua, ho visto lo sguardo cercare rifugio nel cielo, poi celarsi tra i miei occhi piccoli e da lì fuggire all’interno della stanza.

Così ho smesso.

Una volta, una signora mi ha chiesto: “E mordono anche?”. Mi ha fatto pena, con tutto quel grasso che si portava addosso, forse non riusciva che a ragionare in termini di cibo, ma non le ho risposto. Ah, a proposito, la signora è seppellita in una lapide più in basso, tra gli alberi. Lì ci sono le più recenti. Il marito, che ne ha denunciato la scomparsa, credo sia ancora in prigione. L’ha uccisa nel mio albergo, dicono, durante la notte del loro quinto anniversario di matrimonio.

L’ha impalata con uno stiletto al cuore.

Come fece mio padre con mia madre.

Aveva appena finito di allattarmi, con il latte io bevvi il suo sangue.

Fu la mia prima volta e ancora ero solo un bambino vivo.

Scusate ancora un istante, il problema … ecco, il problema della pipa, vedete, è che bisogna sapere mantenerla accesa. Viva. Se non siete abili a darle il giusto ritmo, la brace tende facilmente ad agonizzare.

Bene, ora va meglio, molto meglio.

Sento il sapore del bosco, del sudore di mio padre, così dedito a formarmi. Lecco il seno di latte e sangue di mia madre.

C’è tutto, in questo aroma.

Avete fretta di andare a dormire, vero?

Io no, non fino a quando la pipa si sarà spenta. E anche dopo, tornare al mio loculo, a Bosco Secco, non è mai rasserenante come stare qui, su una poltrona della Sala.

Lo so, vi ho raccapricciato e allo stesso tempo incuriosito con la storia di mia madre. Figuratevi, è il motivo conduttore della mia infanzia. Il raccapriccio e il brivido.

Ma se volete la storia veloce di sangue, quella mediatica, da farvi discutere al bar, l’avete già avuta. Nel 1618 mio padre uccise mia madre con uno stiletto, sotto gli occhi di suo figlio neonato.

Per questo delitto non pagò se non venti anni dopo. Dandosi fuoco. Fu un gesto di purificazione, al quale mi costrinse ad assistere, ormai diventato uomo.

Mi piacque vederlo ardere con tutto il bosco di nostra proprietà. I faggi, gli abeti, i pini. I cipressi.

E lui.

Un unico tizzone ardente per un’immensa pipa. Tabacco speciale per la mia pipa.

Quello che uso ancora adesso.

Da allora il verde che si estende sulla collina si chiama Bosco Secco. Solo cipressi. I cipressi di Bosco Secco.

Ma anche di questo, magari, vi racconterò un’altra volta.

Se invece mi date ancora un instante della vostra attenzione, se volete capire davvero, oltre la cronaca, perché mio padre commise l’omicidio, dovete addentrarvi con me, indietro nel tempo.

Nel 1603 Re James di Inghilterra avviò una campagna contro i fumatori di pipa, che ebbe ripercussioni opposte in questa regione avversa all’Inghilterra.

Così, mentre in Inghilterra e nel resto del mondo nascevano i primi moti antifumo, nel regno Pontificio la pipa divenne cristiana con la benedizione di Papa Benedetto XIII.

E a mio padre, il Barone Dracul Sicuranza, ungherese e primo della nostra generazione a mettersi al servizio del Papa nei territori ribelli dello Stato Pontificio italiano, venne dato dal Pontefice in persona il blasone della pipa.

Lo vedete all’ingresso dell’albergo, sopra l’arcata del portone principale. Una pipa ricurva, nera, incrociata e sormontata da una dritta. Bianca.

Il simbolo della purezza sul male.

Mia madre fu uccisa per questo.

Era una pipa ricurva che mio padre non riusciva a raddrizzare con la sua volontà.

Nel XVII secolo, la Baronessa Maria Ylenia Eventi era l’unica persona che sapeva dire no a mio padre. Lui me la descrive come una ribelle, una folle.

Io la immagino fiera, alta, il suo corpo esile che si erge contro la dittatura di lui.

E lui che nulla può. Che nulla sa. Lui che ha impalato i ribelli del Papa, sotto il blasone, lui che ha fatto bruciare interi villaggi e saccheggiato, sempre in nome di Dio, lui che mi ha forgiato fino allo stremo per rendermi un guerriero, fino a farmi maledire la vita e a scegliere questa non-morte, lo vedo diventare rosso di collera, alzare il frustino sul viso di mia madre. Vedo lo sguardo di lei diventare così fermo e intenso da trasformarsi in un braccio. Un braccio che lo costringe a piegare il frustino e a ritirarsi. Furente. Sconfitto dalla stoicità di mia madre.

E dall’amore.

Sì, vi sembrerà strano, ma mio padre adorava mia madre.

Fu per questo che la uccise.

Perché quando l’amore è frustrazione diventa un predatore in attesa.

Oh, ecco, vedete, si è spenta di nuovo. Abbiate ancora un istante di pazienza, sto per finire e …

Uhmmm … Non fate caso alla mia espressione, signori, signore, vi prego. Rendere di nuovo viva questa pipa, lo capite, è per me un orgasmo di ricordi.

Mia madre fu la prima donna a fumare la pipa. Contro il volere del suo marito padrone, ovvio. Insomma, nonostante il nostro blasone fosse quello che avete visto, Dracul Sicuranza non poteva permettere che lei fumasse.

Se lo avesse saputo il Pontefice, poi?

Non ci furono discussioni a tale proposito, tuttavia.

Perché la storia di mia madre finisce con l’inizio del suo fumo.

Partorì me dopo cinque anni di matrimonio.

E, subito dopo il parto, mentre mi stava allattando, si concesse il desiderio di fumare.

Perché proprio allora?

Lo chiesi a mio padre, lo ricordo bene, era un giorno di pioggia torrenziale e di vento che frustava gli alberi del bosco. Lui aveva deciso di farmi saltare i massi, uno ad uno. Scivolai una sola volta, allora, e caddi al suolo. Mi diede un calcio così forte alla nuca, da farmi affondare nel fango. Per poco non affogai, ma fu allora che scoprii, dopo il sangue, il sapore profondo della terra. La terra che sarebbe presto stato il mio rifugio.

Comunque, prima della caduta, gli feci la domanda.

Lui, che mi stava davanti con il frustino sguainato, i capelli lunghi appiccicati alla fronte come vermi neri e morti, mi sorrise appena.

Conoscevo già la sua risposta. E non feci la domanda per sentirla, ma per capire ancora una volta quanto disprezzasse mia madre, senza riuscire a tirare fuori l’amore e il rimorso.

“Era matta, ecco perché. Decise di fumare proprio mentre ti allattava. Ti avrebbe asfissiato. Per questo ha meritato il castigo”.

Lo disse tutto di un fiato, senza inflessioni, sopra il ruggito del vento.

Io annuii.

E ricomincia a saltare. Per questo sbagliai, scivolando. Perché dentro pensavo alla vera risposta.

Mia madre tirò la prima boccata di pipa, perché era il suo desiderio fino ad allora represso. Perché c’ero io. Io ero la sua gioia. E una gioia porta altra gioia.

Tirò fuori la pipa. Gliela aveva intagliata il guardiacaccia, questo è un particolare narrato da mio padre, l’unico che mi sembra credibile. Perché il guardiacaccia si diede alla macchia subito dopo la morte di lei. Quando i soldati di mio padre lo scovarono, mesi dopo, ancora in territorio pontificio, lo intagliarono con i coltelli, a poco a poco, pezzo di carne viva dopo pezzo di carne.

Mio padre assistette.

La mia balia, prima di morire, mi disse che costrinse tutti i soldati a berne il sangue, che lo stesso fece lui. E che il resto lo lasciò per suo figlio.

Non so cosa dirvi, la mia balia mori a cinquantasei anni, un’età mica da poco per allora. E non era tanto a posto con la testa, capirete, nell’ambiente in cui è stata.

Però, uhmmm, ecco, tra i sapori che bevo, in questa pipa, io sento anche quello di un uomo che non conosco. Ne avverto il sangue. La paura e l’agonia.

Ma, miei cari, visto che siamo alla fine, e davvero le vostre palpebre mi sembrano catafalchi che si chiudono, ve la lascio così, questa storia.

Mio padre sorprese mia madre in un momento di massima gioia. Suo figlio al seno, la pipa in bocca.

Una pipa curva. Nera.

Il momento in cui mia madre era forte, ma allo stesso tempo, proprio per questo appagamento, debole.

Il momento che fece breccia nella furia vecchia di anni di Dracul Sicuranza.

Le aprì il seno, fino al cuore, attento a non ferirmi, il mio caro padre.

E io bevvi. Bevvi il sangue.

E forse, chissà, ingoiai anche un po’ di tabacco di mia mamma morente.

Questa pipa ha quattro secoli e, ora che sapete la storia, sapete anche perché è ricurva e nera.

Mio padre, sconvolto, lasciò questa sala come unica testimone del delitto.

La balia mi trovò subito dopo, pieno di sangue. Una mano, piccina, nello squarcio del seno, l’altra che stringeva la pipa.

La nascose e me la diede quando raggiunsi la maggiore età.

La fumo da allora, signori, signore, ogni volta che le tenebre abbracciano l’albergo.

La fumo da quando sono vivo. E ora, oltre la morte.

Buonanotte.




























































































































































































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