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Scheda di presentazione, con estratto, di "Storie da Città di Solitudine e dal Km 76"

L’autore. Giovanni Sicuranza è nato a Gravedona (CO) nel 1967, e risiede a Casalecchio di Reno, provincia di Bologna. Medico Legale, ha svolto il ruolo di Consulente della Procura di Bologna e di Brescia e del Tribunale del Lavoro di Bologna. Attualmente si occupa in prevalenza di Medicina Sociale.



Nel dicembre 2006 è uscita la sua prima raccolta di racconti dal titolo “maschere” (Giraldi Editore, Bologna), scritta con lo pseudonimo di homo interrogans e con le prefazioni di Eraldo Baldini e Valerio Evangelisti. Nello stesso periodo il suo racconto “Previsioni” è stato pubblicato nell’antologia “Tropico d'asfalto ed altri racconti” (Edizioni EDUP). Nell’estate 2007 è presente con un racconto, “Penombre”, nell’antologia “Il delitto si tinge di verde”, Orione Editore. Nello stesso anno, un altro suo racconto, “Il museo delle cere”, è presente nell’antologia noir “La legge dei figli”, con prefazione di Giancarlo De Cataldo, Meridiano Zero Editore. Ancora nel 2007, il racconto “L’ordine delle cose” compare nell’antologia “Giallo Scacchi”, Edizioni Ediscere.


A novembre 2009 è uscito il suo primo romanzo, “Quando piove”, Edizioni Montag.


Nel giugno 2010 sono stati pubblicati due suoi racconti, "Riflessi" e "12", rispettivamente per l'antologia "365 racconti erotici per un anno”, Delos Books Editore e per l'antologia "I sentieri del cuore", Montag Editore.




Storie da Città di Solitudine e dal Km 76. In una notte sospesa dei nostri tempi, il custode del cimitero di Fine Viaggio termina il suo percorso terreno adagiato tra le dimore dei defunti del paese. Ha una storia che riguarda ognuno di loro, una storia che ha appreso osservando giorno dopo giorno le foto sulle lapidi. Follie, tragedie, amori intensi e malati.


I racconti si sviluppano a intreccio durante la lucida agonia dell'uomo. Fino all’epilogo, con l’ultima storia, un segreto di morte che riguarda proprio il custode.


E dopo la sua morte, al Km. 76, che segna il punto in cui la statale lambisce Fine Viaggio, un nuovo tipo di culto dei defunti ha inizio.


L’antologia è strutturata a racconti, con il filo conduttore della storia di Fine Viaggio, che si integrano uno nell’altro con la coralità del romanzo.






Link utili per approfondimento:


1) http://ilmiolibro.kataweb.it/schedalibro.asp?id=496213

2) http://www.youtube.com/watch?v=ozaLLCQLSHI

3) http://sicuranza.blogspot.com/

 








ESTRATTO dall'OPERA.

Storie da Città di Solitudine e dal km. 76



dove la morte è poesia





antologia di

Giovanni Sicuranza





Disoccupato


dalla vita,


dondolo


lenta agonia.


Il mio ramo si flette,


lacerato


da graffi di linfa.


E io sono solo carne.


Solo peso di carne.


il custode










Pianto di Natale


Il pianto dall’altra parte della porta.


Continuo, senza pietà. Così intenso da riempire tutto il palazzo.


La chiave che annaspa tra le mani per tuffarsi nella ferita della serratura.


Uno scatto, il pianto, un altro scatto, il pianto.


E finalmente la donna si tuffa all’interno del corridoio, le borse della spesa che precipitano al suolo con tonfi di macigni.


- Arrivo – urla – ecco – continua, con l’intenzione di dire “eccomi”, se il fiato non fosse già diventato agonia nell’affannosa corsa sulle scale dal portone al secondo piano.


Romilde è il nome di una fiaba. Così aveva deciso sua madre quando lei era nata, fragile e inconsapevole del mondo.


Ventisei anni dopo, Romilde è capelli arruffati, sudore che vela occhi, moccio che serpeggia denso da una narice. É continua corsa nella quotidianità. Il lavoro, la casa.


Nessun segreto su cui sognare, nessuno specchio su cui soffermarsi per un cenno di trucco. Nessun lieto fine da quando l’uomo con cui ha convissuto l’ha abbandonata per un’altra, salutandola con una bestemmia, un mutuo da pagare per i prossimi secoli, un abito da sposa impiccato nel buio dell’armadio.


E il piccolo.


Il piccolo che ora piange e che lei tenta di consolare gorgogliando litanie spezzate dal fiatone.


- La mamma è arrivata, la mamma la mamma – cantilena Romilde, cercando di pulirsi il sudore con un mano e con l’altra di solleticare il viso paffuto di Mattia. E forse è proprio per questo che il bambino scalcia con più forza nel lettino e intona una versione di pianto più grintosa di prima.


La principessa Romilde si accascia nel mantello di un impermeabile chiazzato di grasso e sudore, mentre le scarpe da saldi al mercato sgusciano dai piedi gonfi. Accanto al lettino, piange anche lei, impotente, nemmeno capace di sovrastare il tono del figlio.


Dopo pochi minuti, è sdraiata al pavimento, il corpo vibrante in un sonoro russare, che è riuscito ad incuriosire Mattia. E a farlo tacere.


***


Le feste sono ironia che si rinnova sul fallimento di Romilde. Il Natale che striscia dapprima nella pubblicità, poi si colora nelle vetrine dei negozi e quindi irrompe nella decorazione della città, nei palazzi.


Romilde si è alzata alle cinque, come tutte le mattine. I piedi nudi sul granito in glaciazione, scosta la tendina della finestra. Piano, per non svegliare anche Mattia, che dorme accanto a lei. D’altra parte, la casa è un cubo con una cucina, una stanza da letto a mansarda e un bagno dove può muoversi con naturalezza solo un’anoressica. Romilde è in soprappeso da quando ha partorito.


Allora credeva ancora al suo uomo, pensa mentre osserva i lampioni che sfrigolano freddi nel buio, allora sapeva che la loro storia avrebbe avuto tutte le allegre melodie delle fiabe e una scritta scesa dal cielo.


- E vissero felici e contenti – piange sottovoce, mentre i fari ciechi delle prime auto sul viale le rimbalzano sul viso e le ricordano che tra poco comincia il turno in fabbrica.


Invece lui si è trasformato nel nulla, anzi, peggio, nell’orco cattivo. Perché se è vero che ogni mese le passa un soffio del suo stipendio, è anche vero che una volta alla settimana passa e basta. Cammina lungo il marciapiede, felicemente a braccetto dell’altra. E quando arriva all’altezza del suo appartamento, del loro appartamento, si ferma un istante, alza gli occhi sottili e stira le labbra in un sorriso. Poi, come se quel gesto ripetuto fosse la replica di un sipario, continua la passeggiata, indifferente a tutto se non alla sua nuova donna.


Romilde solleva gli occhi umidi sulle case di fronte. Tutte le luci sono spente, ancora nessuno ha iniziato la giornata, eppure è strano vedere questi nuovi Babbo Natale appesi sui balconi o sulle finestre. Sono grandi, piccoli, un esercito immobile nel gesto di penetrare nelle case. Hanno un’attesa lunga, nel giorno e nella notte, nel freddo della festa che avanza. Sono solo pupazzi, Romilde lo sa, eppure le loro ombre in scalate sulle case buie la inquieta.


Pensa che saranno anche truccati da Babbo Natale, ma non hanno nulla di rassicurante. Allora chiude la tenda e si muove verso la cucina. Bastano pochi passi per arrivarci, ma il freddo del pavimento la scuote subito, tradendola. Inciampa nell’armadio, le ante che si aprono in un lungo cigolio di protesta e mostrano una cavità buia.


Romilde trattiene il fiato, un po’ nel timore di svegliare il figlio, un po’ ipnotizzata dall’ombra che sguscia veloce dall’armadio. Una gonna troppo pesante per una gruccia efebica scivola al suolo in un tintinnare di lampo e bottoni di plastica.


Mattia apre gli occhi al nuovo giorno. E inizia a innalzare il pianto a tutti gli esseri viventi.


***


È sera.


Il latte che si scalda nel pentolino. La fiamma è danza azzurra e gialla sugli occhi rossi di pianto e stanchezza di Romilde.


La televisione è accesa sulla notizia del giorno. Un omicidio all’agriturismo “Il chilometro 76”, poco fuori Città di Solitudine; un fatto raccapricciante, che scorre come una scossa tra gli abitanti del paese, ancora più violenta, perché il morto è un ragazzino. Lei vorrebbe seguire il telegiornale, ma Mattia sta dormendo e non osa rischiare. Non dopo ore trascorse a sentirlo urlare, mentre era intenta a fare il bucato, a lavare i pavimenti, a sistemare una lampadina fulminata e la serratura arrugginita della porta. Veloce, frenetica, precisa, sotto il pianto battente del figlio nelle orecchie, nel cuore. Nella mente.


E nel frattempo ha anche avuto modo di scorgere dalla finestra l’avanzata dell’uomo, di vedere il suo ghigno verso quella che era la loro stanza d’amore, di ingoiare amaro al suo avvinghiarsi sull’altra nella ripresa della passeggiata.


I Babbo Natale appesi ai balconi hanno dato le spalle alla scena, come sempre indifferenti.


Ed ora lei sta scaldando il latte per Mattia, in ondate di sconforto.


Romilde non è fatta per questa storia di solitudine e pianto. Romilde vuole una fiaba. Sua mamma l’ha chiamata così proprio per augurarle una vita da favola, lo ha sempre ripetuto, fino a quando un camion non l’ha sbriciolata a pochi minuti dalla nascita del figlio.


Mattia forse lo sa. Mattia che già si sveglia. E piange.


- No! – urla la donna caduta da una fiaba – No! – ripete sopra il pianto del figlio e in un balzo tenta di correre verso di lui, sentendosi piena di vuoto e sconfitte.


Urta il pentolino e lo osserva mentre si tuffa al pavimento in un tintinnare che esplode nei pensieri. Il latte si sparge ovunque, lento e denso come sangue anemico.


- Basta! – è il grido finale di Romilde, che afferra il pentolino e corre dal figlio.


- Basta! – è il suono che ripete mentre cala la pentola con violenza sulla testa di Mattia, una volta, due, tre, e chissà quante altre, fino a quando la mano non è satura di formicolii e sangue e frustoli di cervello.


Allora si ferma, esausta, e guarda il figlio che ha cambiato volto e che ha smesso di piangere. Questa volta davvero, questa volta per sempre.


Apre e chiude le labbra, mentre schizzi di sangue le scendono sul viso e le riempiono la bocca del sapore di Mattia. Cerca di allungare le mani sul corpicino martoriato, ma le ritrae subito, inorridita.


È sconvolta, Romilde. Perché scopre che oltre l’orrore di avere massacrato suo figlio, si sente anche sollevata.


Lo sguardo va alla finestra, come desideroso di fuggire, e si immobilizza sulle luci che filtrano dalle case circostanti, dagli addobbi natalizi lungo la strada.


Pensa Romilde, pensa, confusa, veloce, pensa con l’espressione che si trasforma piano, fino a quando dal panico non emerge un sorriso. E gli occhi scintillano di lucida gioia.


***


Il giorno dopo Natale, l’uomo passeggia come sempre lungo la via dove ha vissuto con Romilde gli anni più tristi della sua vita.


- Idealizzava ogni cosa – ripete spesso alla sua nuova compagna – Una rompiballe fuori dalla realtà che credeva nella fiabe. Un tipetto da romanzo rosa, insomma.


Oggi l’uomo ha fretta. Lo aspetta il pranzo con i colleghi di lavoro, eppure non ha rinunciato a parcheggiare l’auto fuori mano per compiere il solito percorso in compagnia della sua donna.


- Così diamo alla mia ex un altro esempio di cosa sia la realtà – ha spiegato, incurante dello sbuffare di lei.


Quando sono arrivati sotto l’appartamento, ha come al solito sollevato la testa verso la finestra della stanza da letto. E si è messo a ridere.


- Vedi come è fuori dal mondo? – ha richiamato l’attenzione della sua compagna, il dito puntato in alto – Natale è già passato, tutti stanno togliendo gli addobbi, e lei cosa fa? Guarda, ha attaccato alla finestra uno di quei buffi Babbo Natale arrampicatori!


La compagna solleva lo sguardo controvoglia. L’idea di arrivare tardi all’appuntamento con i colleghi di lui la infastidisce, anche perché si tratta della prima occasione di incontrare il suo nuovo amante in società.


Ma quando vede il Babbo Natale appeso alla finestra, esita, perplessa.


- Però, è strano – mormora – Non ti sembra più realistico degli altri? Anche così piccino.


- Sì, dai, qui di piccino c’è solo il cervello della mia ex – sentenzia lui, già disinteressato. Con un braccio avvinghia la vita della sua donna e la trascina avanti.


Sopra di loro, una tendina si chiude. Piano.










Cavallette sul selciato


Le luci che


navigano


nel tuo


bicchiere


sono acque


di una palude


pesante


Affannata


di piaceri caduti


Limacciosa


di sensi di colpa






Lascialo cadere


ora


E poi ascoltalo


quel bicchiere






È rabbia di anni


che scheggia


il pavimento






Gemito


di liquido perso


da lontane


ferite






È tela lacerata


che beve


il tuo pensiero






Prognosi di nulla


sul rigor


di un desiderio


canuto






Io sono


il tuo medico


anche stasera






Non ho farmaci


che guariscano


il tempo


Nemmeno ne conosco






Ma ho un saluto


da darti


l’addio


che mi chiedi






Lascialo cadere


ora


quel bicchiere


con le sue luci


pesanti


di alcol


Spegni il suo


pianto


questa sera






Chiudi la porta


sulla palude


del suo liquido


pastoso






E usciamo






Usciamo dove


la vita è


terapia di


brevi baci


segreti






Dove in luci


nascenti di alba


tra farmaci di


ultimo sonno


tu possa


vivere ancora


Solo


un minuto


prima del gelo


pieno di te






***


Le cavallette piangono sul selciato.


Il dottor Santino si sorprende sempre in questa illusione estiva quando percorre con passo incerto il sentiero che dalla strada provinciale porta all’ingresso del cimitero. Nei brevi tratti rettilinei in salita, nelle curve ampie di serpente assonnato, ascolta il lento cri-cri della ghiaia sotto i passi, che alle sue orecchie diventa il lamento di cavallette nascoste intorno alla meta.


Anche in questa giornata di livido inverno.


***


È triste, il dottor Santino, di una tristezza lontana, che quasi non lo riguarda più, tanto è entrata a far parte di lui negli anni di percorsi intorno al cimitero del paese e al dolore della gente.


La morte è diventata dialogo e psicanalisi, è irruzione di domande improvvise in cui cerca di muoversi come meglio può. Con passi lenti e zoppicanti, di ghiaia e cavallette sparse nella mente.


Nel cammino sull’ultima ghiaia, durante la curva che si apre sullo spiazzo del cimitero, il dottor Santino si ferma. Dissolve le cavallette e con lo sguardo si arrampica sui muri che cingono le lapidi in una barriera effimera tra la vita e la morte.


Il suo orologio da taschino tentenna prima di allineare le lancette sulle ore del primo mattino, poi si spegne in uno slancio di vibrazioni che il medico accoglie come una serena agonia tecnologica. Seppellisce il pensiero del suo orologio nella fossa comune delle cavallette e socchiude lo sguardo miope per focalizzare l’albero di faggio ricurvo sull’ingresso del cimitero, unico custode di un luogo lasciato all’incuria.


Un tempo, prima dell’editto di Napoleone, questo cimitero era occasione di vita. Tra le sue lapidi si danzava e si mercanteggiava e la morte era evento naturale in cui calarsi nei ritmi del giorno.


Il dottor Santino scorge la figura nera, di ombra umana, appoggiata sul tronco ricurvo dell’albero e si chiede chi dei due stia sorreggendo l’altro. Intorno a quel dipinto, due uomini diafani in divisa da carabiniere si muovono a scatti, quasi avvolti da timore o confusione. O come fedeli sull’altare della morte.


Sospira, profondo, pieno, pesante, e in questo modo crede di trovare la spinta per raggiungere la scena, ma il pianto della cavallette lo stupisce precedendo i suoi passi. Si volta verso il suono e scopre un viso familiare.


- L’ho sorpresa, dottore? – chiosa il Procuratore Magistri Elena, classe 1969, con un tono in bilico tra ironia e scuse di circostanza.


Il dottor Santino si ascolta sorridere.


- Un po’, credevo di essere solo da queste parti -


- Cercavo tracce –


- Prego? –


Il Procuratore Magistri Elena allarga le braccia classe 1969 come per mostrare il suo territorio, poi con occhi vivaci attraversa gli occhiali da miope del medico.


- Sembra una morte naturale, tranquillo, routine per lei – si ferma spalancando pupille e annessi ciliari e muscolari circostanti e si morde le labbra, nel sospetto di parole troppo slanciate – Intendevo, nulla di particolarmente insolito, mica mi riferivo alla sua professionalità -


Altro sorriso clonato da parte del dottor Santino.


- Vogliamo andare? -


Il medico annuisce, anche se sente le gambe che tentano di cedere, di piegarsi e trascinarlo sulla ghiaia.


Il Procuratore Magistri si sta già avvicinando al dipinto scuro di albero e figura umana appoggiata e lui la segue, in silenzio.


Le cavallette piangono verso il cimitero con nuova intensità.


- Le spiegavo, davvero, sembra un caso di morte naturale, insomma, le chiederò l’autopsia, però, perché -


La donna si ferma, bruscamente, senza segnali, e il dottor Santino si ritrova il naso appoggiato al suo giubbotto imbottito di mistero. Lei sembra non farci caso, gli occhi di nuovo in penetrazione nelle sue lenti da miope.


- Insomma, niente segni di lesività esterna, ma, concorderà con me, è un tantino insolito venire a morire sotto il faggio del cimitero la notte di capodanno -


Santino concorda con un cenno dovuto.


Le gambe insistono per un crollo totale, lui decide di ignorarle. O almeno di provare a farlo.


La donna inclina leggermente il capo e i capelli classe 2005, freschi di tintura, si adagiano sulla spalla come salici dorati. Lui li osserva in un fugace rapimento, perdendo il senso della domanda.


- Come? -


- Appunto – il tono del Procuratore Magistri è ora fermo, professionalmente sospettoso – Le ho chiesto se si sente bene, mi sembra pallido, distratto –


Il dottor Santino arrampica un dito sulla montatura nera degli occhiali e senza necessità la fa scivolare sul naso.


- È capodanno – si scusa.


Il Procuratore sembra accettare la deposizione.


- Beh, sì – svela denti bianchi sotto le labbra piene – Notte da bagordi, eh? Mi perdoni, sa, ma non la vedo molto a tirare tardi -


Se sapesse, vorrebbe risponderle Santino, ma quando si accorge che a questo pensiero le gambe stanno per trarre rinnovato motivo di crollo totale, si urla un no e si limita a stringersi nelle spalle con aria complice.


Così per il Procuratore il caso è chiuso.


- Vogliamo andare? – ripete e la scena si completa come da protocollo con nuovi passi verso la scena di morte.


***


La donna è appoggiata con la schiena sul vigoroso tronco di faggio.


Il capo, reclinato, è velato da lunghi capelli neri, stopposi, quasi incartapecoriti, ma che sussurrano ancora di un passato splendore.


Le mani sono appoggiate sul terreno, distese, come a sincerarsi della realtà della terra, nuova simbiosi per il corpo defunto. Dita lunghe, fasciate dal rigor della morte. Bianche fino alle unghie, dove il nero è colore predominante e frastagliato nei segni di morsi nervosi e solitari.


Uno dei due carabinieri, guanti indossati, si china troppo velocemente, con ansia, su quel corpo dormiente di assoluta immobilità e fa per scoprire il viso dai capelli.


- Aspetti – lo ferma il dottor Santino, con tono stanco.


Sei occhi lo intercettano all’unisono e si appoggiano sul suo viso con aria stupita. Santino sente il peso della perplessità interrogativa del Procuratore e dei due carabinieri e di nuovo le gambe gli suggeriscono di cedere.


- Voglio solo dare un’occhiata generale al – corpo, cadavere, è così che deve dire, si ricorda.


- Si sa chi è? – chiede invece, lo sguardo che segue smarrito la salita del tronco, fino alla sua ricurva caduta verso il suolo.


L’altro carabiniere cita da taccuino


- Maddalena Lucina, classe 1973, vedova -


Il dottore annuisce.


Si accovaccia accanto al cadavere in gesto professionale, in realtà concedendo una vittoria parziale alle gambe, e finalmente scosta i capelli dal viso.


- Era bella – sussurra il carabiniere al suo fianco.


- È bella – aggiorna il dottore con parole che si perdono nel cielo pesante d’inverno.


Il Procuratore Magistri Elena, classe 1969, ben attrezzata, si avvicina e cerca una scappatoia per non perdere il suo primato di bellezza oltre la vita e la morte.


- Beh, sarà stata anche bella, ma qui ci risulta una lunga storia di depressione ed alcolismo -


Le lenti miope del dottore si sollevano sui suoi occhi vivaci e lasciano una domanda nell’aria. Il Procuratore rimbalza lo sguardo interrogativo sul carabiniere armato di taccuino. Questi ha un fulmine di smarrimento sul viso, poi comprende.


- Siamo già risaliti al suo indirizzo e i colleghi di pattuglia ci hanno detto di avere trovato le cartelle cliniche di vari ricoveri in merito ai problemissuindicati - recita appiccicando le ultime parole.


Il dottor Santino annuisce, poi si volta ancora sul viso della donna.


Il pallore nevoso della morte le ha portato via il colore rosso del vino e quello grigio della depressione. L’ha lavata del suo passato, ma le cartelle cliniche sono rimaste, lapidi indiscrete e già fuori luogo.


Santino chiude gli occhi e ricorda.


Una mano scivola silenziosa nell’ampia tasca del suo cappotto e tra slalom di cappucci di biro smarrite, briciole di pane ignorato, raggiunge il fruscio della carta.


Gli occhi si aprono e vestono la lunga parete del cimitero di sguardi spenti e nostalgici.


- Dottore? – lo esorta il Procuratore Magistri, avvicinando passi al suo volto.


- Se tutto fosse stato come un tempo, chissà – parla lui senza voltarsi – Avete notato come la morte è allontanata e murata? Non c’è vita sociale qui intorno. Fateci caso, avete mai visto, che ne so, negozi accanto ad un cimitero? A parte quelli di fiori, intendo, mai un edicola colorata, mai un pub chiassoso, mai attraenti esposizioni di vestiti e scarpe e stereo –


- E vorrei anche vedere – sbotta il carabiniere al suo fianco.


Santino sospira, ancora pesante, profondo. Sospira con tutto il suo corpo, poi, lento, si muove e fa un gesto che sorprende il Procuratore Magistri, classe 1969, e i due carabinieri, qualunque classe si portino dietro.


Si siede al suolo, sulla terra, appoggiato all’albero, accanto al cadavere della donna. Spalla contro spalla.


- Dottore? – ripete il Procuratore, mentre gli occhi dei carabinieri corrono a lei in confusa attesa di ordini.


Santino ha ancora lo sguardo sulla parete del cimitero.


- Allontaniamo la morte in ogni modo e, per compensare, cerchiamo avidamente notizie di quella altrui, purché lontana e possibilmente televisiva -


- Dottore – altri due passi del Procuratore, questa volta più decisi – Credo stia inquinando la scena – la voce è ancora incerta.


- Ma così la nostra debolezza e la nostra paura aumentano. Tanto la morte ci viene a trovare sempre, immancabilmente, all’improvviso, spegne i nostri cari o noi stessi. Non ci sono gesti scaramantici o mura per sconfiggerla –


- Ecco, dottore – il Procuratore Magistri esita ancora; dalla sua classe 1969, per la prima volta non sa come muoversi sulla scena di un sopralluogo – Appunto, mi scusi, devo esortarla, le prove –


Finalmente il dottor Santino la guarda. Finalmente, dietro le lenti da miope, gli occhi sono presenti. In una tonalità intensa, così intensa da essere forse il motivo che spinge il Procuratore Magistri ad arretrare di qualche passo.


I carabinieri la imitano diligentemente.


- Non si preoccupi. Conosco bene la scena e posso permettermi di inquinare le prove – la mano riemerge dalla tasca esumando il foglio seppellito.


- Lo prenda, è una prova –


Il carabiniere più vicino si allunga, ma il dottore ritrae la mano.


- Lasci a me – capisce la donna e prende il foglio accartocciato – Di cosa si tratta? – chiede mentre ne sta già svelando le parole scritte.


Santino chiude ancora gli occhi.


Attende e ascolta il silenzio.


- Non capisco – mormora lei dopo minuti senza tempo. In realtà il tono soffuso della sua voce già tradisce il timore della comprensione.


- Ho scritto quei versi di getto, questa notte, qui, accanto a Maddalena morente. Li ha letti, no? Li ho intitolati “ritratto da un ultimo bicchiere” –


Silenzio. Silenzio sulle parole, intorno alle parole. Silenzio sulla scena di morte. Silenzio sulla vita.


La donna fissa Santino con stupore immobile e vede un uomo infagottato e pesante, adagiato accanto al cadavere di una donna. I carabinieri si avvicinano, cauti, cercano di sbirciare nel foglio, ma il Procuratore li precede porgendolo all’agente più anziano di grado.


- Lo registri immediatamente come prova –


Adesso la scena è ancora sua, capisce il Procuratore Magistri, ma non lo pensa con sicurezza, anzi. Sente Elena, la parte di lei senza vestiti, che vorrebbe urlare, scappare, negare.


- Perché? - riesce invece a chiedere dalla sua professionalità.


Santino è solo voce narrante da un pupazzo di carne piegata. Le sue parole cadono piano nell’aria e lasciano tracce di resa.


- Amo Maddalena, anche ora, qui. La morte del marito ha aperto una ferita senza cicatrici sul suo animo depresso. L’alcool l’ha avvolta e le ha dato un’oasi pesante, una palude, in cui comunque ha tentato di esserci – reclina leggermente il capo a sfiorare la spalla cadente della donna morta - Io sono arrivato dopo, il medico di famiglia innamorato, e le ho fatto l’unico regalo che mi ha chiesto-


Elena ha ricominciato a serrare le labbra con i denti, forse per non piangere, forse per non respirare la verità che riempie l’aria di inverno e di morte.


- Sì, è stato un capodanno intenso. Siamo usciti, l’ho accompagnata fin qui, dove giaceva già la sua vita, e le ho dato i farmaci. In overdose –


L’uomo annuisce con testa pesante, poi apre di nuovo gli occhi e in una carezza li posa sul volto del cadavere.


- L’ho ascoltata morire di vita finalmente sua. E intanto scrivevo la nostra poesia -


- Dottore –


- Lo so, un attimo solo, poi vi seguo. Un attimo solo –


Trascorre davvero un attimo, un attimo solo, prima che i carabinieri aiutino il dottore ad alzarsi.


E in quell’attimo, che è di assoluto silenzio, Santino le sente ancora. Per la prima volta senza passi.
Cavallette piangenti sul selciato.

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