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Mobbing - prima parte -

FENOMENO MOBBING E RIFLESSI MEDICO- LEGALI


Definizione del termine “Mobbing”.


Deriva dall'inglese "to mobe", che letteralmente significa "aggredire". Il vocabolo viene utilizzato in zoologia per identificare il comportamento aggressivo del branco, in alcune specie animali, nei confronti di un individuo isolato, in particolare, fra gli uccelli, la coalizione messa in opera dai maschi adulti del gruppo, allo scopo di contrastare l'attacco di predatori isolati, non altrimenti affrontabili individualmente, contro i piccoli nel nido. Nella nostra società, col termine di Mobbing, si fa riferimento ad una situazione in parte diversa dal corrispettivo zoologico, rappresentando sì un fenomeno contrassegnato dalla coalizione di più individui contro un singolo, ma allo scopo ultimo di allontanarlo da un gruppo, in particolare l'ambiente lavorativo. Si tratta cioè di una situazione di assalto ed accerchiamento di gruppo con terrore psicologico compiuto sul posto di lavoro. La strategia distruttiva può essere predisposta o dai vertici dall’azienda, (Mobbing verticale) o maturare nell’ambiente di lavoro tra colleghi (Mobbing orizzontale). Il Mobbing si differenzia dal “Bullying” in quanto quest’ultimo fa riferimento esclusivamente al Mobbing compiuto dal superiore verso un sottoposto; similmente, nel “Bossing”, alla figura del superiore si affianca anche quella dell’azienda. Il termine “Harassment”, invece, è utilizzato negli Stati Uniti per indicare le molestie sessuali subite in ambito lavorativo.


Fenomeno Mobbing ed “azioni mobbizzanti”:
il Mobbing si verifica quando le “azioni mobbizzanti” diventano regolari, sistematiche, e di lunga durata. Le “azioni mobbizzanti” possono essere perpetrate da uno o più “mobber” (persecutori) per danneggiare, intenzionalmente, il “mobbizzato” in modo sistematico e per un preciso scopo, mediante strategie comportamentali mirate ad una distruzione psicologica, sociale e professionale. Quest’ultime possono evolversi ed essere cangianti in rapporto alle reazioni della vittima che, comunque, resta costantemente in una posizione inferiore (intesa come status: influenza, potere decisionale, rispetto, salute, ecc...) rispetto agli avversari. Il tutto sfocia nell’emarginazione e nel tratto tipico del “mobbizzato”, cioè, l'isolamento. Secondo la Huber (1994), le persone a rischio di Mobbing sono individuabili in quattro tipi: 1) una persona sola ( es. unica donna in ufficio maschile); 2) una persona "strana" ( es. particolare modo di vestirsi ); 3) una persona che ha successo ( es. una promozione ); la persona nuova ( es. neo- assunto ). Altri Autori (Niedl, Brodsky, Brinkmann, Ausfelder, Hesse- Schrader) delineano diversamente i tipi ideali di mobbizzati: il distratto ( non si accorge che la situazione intorno a se è cambiata); il prigioniero ( è incapace di sfuggire dalla situazione mobbizzante); il paranoico- il sofferente (i colleghi si sentono ingiustamente accusati o tediati e finiscono per mobbizzarlo realmente); il severo (pretende la rigida appplicazione di regole severe, scatenando i "mobber"); il presuntuoso (i colleghi si sentono giustificati a tramare contro una persona del genere); il passivo e dipendente (il suo servilismo può scatenare le antipatie dei colleghi); il buontempone (può diventare per tutti il buffone e non essere più preso sul serio); l'ipocondriaco (incline all'autocommiserazione può provocare nei colleghi un senso di fastidio); il vero collega- il camerata (potrebbe scatenare l'invidia di qualcuno o essere visto come un potenziale pericolo per un "mobber" già in azione); l'ambizioso (mettendo automaticamente i suoi colleghi in cattiva luce si espone a Mobbing); il sicuro di se (può facilmente provocare invidia nei colleghi); il servile (aspira a fare tutto alla perfezione per ottenere la piena soddisfazione del capo non evitando di scaricare le responsabilità sui colleghi); il capro espiatorio (è la "valvola di sfogo" di ogni gruppo di lavoro); il pauroso (i colleghi temono di venire coinvolti nell'atmosfera di panico che diffonde); il permaloso (suscita fastidio e repulsione); l'introverso (la sua mancanza di comunicazione può essere interpretata come ostile, potendo addirittura essere scambiato per il "mobber"). Niedl (1995) sostiene che il pericolo di essere mobbizzati aumenti in proporzione diretta con l'aumentare dell'età ( Ege e la Huber dissentono da questa tesi, facendo notare che proprio i nuovi arrivati hanno maggiori probabilità di subire "azioni mobbizzanti") e che sia più frequente nelle professioni amministrative, mentre non rileva differenze tra i sessi. Il "mobber" agisce per noia, per risolvere i propri problemi privati, per distruggere qualcuno a lui scomodo, o del tutto inconsapevolmente. Un altra figura importante è quella degli "spettatori" cioè di tutti coloro che, nell'ambiente lavorativo, non ricoprono ne la figura del "mobber" ne quella del mobbizzato, ma che possono reagire al Mobbing in modo passivo ("co- mobber") o attivo ("anti- mobber").


La prima definizione del fenomeno, venne fornita nel 1993 da Leymann, che chiarì come le azioni che hanno la funzione di manipolare la persona in senso ostile si possano dividere in tre gruppi di comportamento inerenti: a) la comunicazione (urla, rimproveri, critiche continue, rifiuto del contatto ecc...); b) la reputazione (pettegolezzi, offese, derisioni pubbliche ecc...); c) la prestazione (affidamento di compiti senza senso o umilianti ecc...). Nello stesso anno, in Germania, veniva fondata l’Associazione Contro Lo Stress Psico- Sociale ed il Mobbing, che provvedeva a redigere la prima definizione ufficiale del predetto fenomeno, identificabile in una comunicazione conflittuale sul posto di lavoro nella quale il mobbizzato è posto in una posizione di debolezza e percepisce tale processo come una discriminazione. sempre nel 1993 Walter definiva il mobbing, in chiave operativa e diretta, come segue “il mobbing è un conflitto dove:  tutti perdono


 col tempo alcune persone dimostrano una forte inferiorità, e non solo rispetto al conflitto stesso, ma nella loro loro completa personalità


 non si cerca più una soluzione o un compromesso, ma il conflitto va avanti solo in quanto tale


 si continua il conflito per interessi non visibili e irrazionali


 tutti i partecipanti giudicano scorretto il comportamento mobbizzante, ma nessuno se ne prende la responsabilità


 ognuno ritiene gli altri responsabili dell’escalation del conflitto


 non c’è mai stato o non è più riconoscibile un motivo del conflitto con cui tutto potrebbe essere razionalmente risolto


 tutti i partecipanti rifiutano di porre il conflitto su un piano razionale e rimangono sulle loro posizioni emotive ( percepite come giuste )


 tutti dimostrano impotenza “.






Ancora Leymann nel 1993, sulla base della sua lunga esperienza di lavoro in Svezia, ha sviluppato un catalogo (LIPT- Leymann Inventory of Psycological Terrorism) di quarantacinque comportamenti mobbizzanti suddivisi in cinque diverse categorie:


1. Attacchi alla possibilità di comunicare : es. il capo limita le possibilità di esprimersi della vittima.


2. Attacchi alle relazioni sociali : es. non gli si parla più.


3. Conseguenze sull’immagine sociale : es. si cerca di convincerlo a sottomettersi a visita psichiatrica.


4. Attacchi alla qualità della situazione professionale e privata : es. gli si danno lavori umilianti.


5. Attacchi alla salute: es. gli si causano danni per svantaggiarlo.




Tuttavia, Neuberger nel 1994 ritenne la LIPT non esaustiva e limitante; peraltro, Ege nel 1996, le riconosce un importante funzione orientativa, soprattutto alla luce dell’ampliamento delle voci operato da Knorz e Zapf nel 1995. Ancora Ege, sottolinea l’importanza della situazione in cui avviene l’azione, cioè, in diversi posti di lavoro possono esistere diverse modalità di comunicazione verbale e non, e ciò che può ferire in un contesto può passare inosservato in un altro, anche se la medesima azione è riportata nelle liste.



Modelli del Mobbing.
Il Mobbing, come già scritto, prevede un reiterazione di lunga durata di “azioni mobbizzanti” secondo un andamento dinamico ed articolato. Diversi Autori hanno tentato di determinarne le fasi, pervenendo così a vari modelli, di cui ne cito tre:
1) modello del mobbing secondo Leymann (1993);
2) modello del mobbing secondo Leymann integrato da Ege sulla scorta della sua personale esperienza e della consultazione di altri Autori; 1996.


Secondo Ege, il primo modello è “inadeguato e inapplicabile ad una realtà sociale come quella italiana, essendo questa per troppi versi distante ed inconfrontabile da quella germanica o nordeuropea per cui era stata elaborata”. Lo stesso Autore, ha quindi proposto nel 1996 il modello sopra riportato, da lui integrato, per poi giungere nel 1998 alla formulazione del cosiddetto modello italiano Ege.


Premesso che tali modelli non sono da intendersi con rigido schematismo (non tutti i casi arrivano necessariamente all'ultima fase e/o evolvono seguendo i vari stadi in modo ordinato), passo in rassegna le varie fasi relative ai primi due modelli:


1) Il conflitto quotidiano: esso agisce da starter per lo sviluppo del mobbing allorquando non si risolve caratterizzandosi per la reazione aggressiva della vittima all'attacco dissimulato del mobber. Infatti, un punto nodale è rappresentato proprio dalla dissimulazione dell'attacco che secondo Walter (1993) può avvenire con le seguenti modalità:


a) gli aggressori sminuiscono il loro comportamento attraverso paragoni a loro favorevoli; es. "Quello che fa X è molto più grave di quello che faccio io".


b) Si giustificano sulla base di principi a loro superiori, es. "Questo lavoro deve essere terminato entro la fine del mese".


c) Nascondono o attribuiscono ad altri le loro responsabilità; es. "Io faccio solo il mio dovere".


d) Si giustificano sulla base del comportamento della vittima stessa; es. "Non si meritava altro".


e) Cercano il motivo nella vittima stessa; es. "Mi ha provocato".


f) Non capiscono (o rifiutano di capire) le conseguenze delle loro azioni; es. "Non era poi così grave".


g) Dimenticano o nascondono le conseguenze; es. "In quel momento non ho pensato a ciò che poteva accadere".


Secondo Von Rosenstiel- Molt- Ruttinger (1995) il lavoro di gruppo offre le maggiori probabilità che si verifichi un conflitto a causa dei seguenti fattori favorenti:


a) il reciproco ostacolarsi nello svolgimento del lavoro.


b) La difficoltà nell'uso in comune degli strumenti di lavoro.


c) La lavorazione imperfetta da parte del collega precedente.


d) Il rifiuto delle offerte di aiuto.


e) I tempi di attesa maggiori a causa di lavori ritardati dai colleghi.




2) L'inizio del Mobbing e del terrore psicologico o maturazione del conflitto: in questa fase il conflitto matura e diventa continuativo, trasformandosi in mobbing vero e proprio, dove anche il fatto più banale può assumere le caratteristiche di terrore psicologico allorquando non venga chiarito in breve tempo. Il mobber, ora, agisce intenzionalmente nei confronti del mobbizzato divenuto tale e stigmatizzato nel ruolo di vittima.


3) Errori ed abusi anche non legali dell'Amministrazione del personale: a questo punto, l'Amministrazione del personale, venuta a conoscenza, attraverso un tam- tam interno o reiterate assenze (per disturbi psico- somatici al Mobbing collegati) o calo di produzione, di una situazione di decadimento prestazionale lavorativo inerenti un dipendente, provvede ad una valutazione dei motivi e della situazione interpellando al vittima stessa, ma soprattutto raccogliendo informazioni da colleghi e superiori, ovvero dalla fonte del Mobbing. Il "mobber", inoltre, ha spesso la complicità dei colleghi "esterni", che non possono o non vogliono esporsi. Quindi il soggetto mobbizzato viene inquadrato dall'Azienda come un peso economico, che si trova così relegato in una condizione di "handicap sociale". Il problema è ora, per l'Azienda, quello di liberarsi di questa persona improduttiva e scomoda, fine attuato con mezzi indiretti (trasferimento, declassamento per malattia, rifiuto di pagare lo stipendio, negazioni di informazioni necessarie per assolvere il proprio lavoro, esclusione della possibilità di discolparsi, stabilire scadenze appositamente fissate per risultare poi impossibile da rispettare) tendenti alle dimissioni volontarie e "comode". D'altra parte, può accadere che il Mobbing sia attuato in maniera programmata da un'Azienda, al fine di ridurre il personale, stando le difficoltà di licenziamenti.




4) Esclusione dal mondo di lavoro: fase estrema, non raggiunta in tutti i casi. Ora il "mobbizzato" è solo ed isolato. Nel contesto italiano la famiglia, notoriamente, ha un ruolo di primaria importanza. Premesso ciò, appare chiaro come un buon supporto familiare, mediante un dialogo continuo, possa in un primo momento facilitare la soluzione di conflittualità lavorative. Ma, successivamente, e soprattutto in questa fase, anche il nucleo familiare può diventare un ostacolo per il "mobbizzato"; infatti, è possibile che, gradualmente, il parente "mobbizzato" venga considerato un fallito ed accusato responsabile di quanto gli è accaduto (“doppio Mobbing”). In questa fase è possibile che la vittima sviluppi manie ossessive, differenti in base al sesso (es.: nelle donne: anoressia o bulimia; negli uomini: alcolismo, mania del gioco), con perdita dell'immagine sociale e di se stessa. Si può arrivare inoltre alle dimissioni da parte del lavoratore, ormai esasperato da una situazione vessante, e più o meno direttamente spinto verso questa scelta; oppure, più frequentemente, al licenziamento operato dal datore di lavoro, giustificato dalla necessità di non perdere la disponibilità degli altri colleghi testimoni di un comportamento disdicevole della vittima; altra forma è quella del licenziamento per accordo tra le parti, cioè per un compromesso tra la vittima e datore di lavoro/ Azienda, solitamente a tutto vantaggio di quest'ultimi, nonostante l'apparente solidarietà con il "mobbizzato". Altro aspetto di questa fase è quello della liquidazione, alternativa al licenziamento e alle dimissioni. La lunga malattia, cioè avvalersi di assenze per periodi sensibilmente lunghi a causa di disturbi psico- somatici connessi alla mobbizzazione, sembrerebbe, secondo Ege, la soluzione più adatta per la vittima per far fronte al terrorismo psicologico. Il prepensionamento, ovviamente quando ciò è possibile per età, anzianità di servizio e familiari a carico della vittima, avrebbe, secondo Ege e Leymann, una ripercussione sfavorevole per quest'ultima, al punto tale che Ege arriva a sostenere "il prepensionamento, anche non dovuto al mobbing, porti con se un fattore mobbizzante". Il trasferimento solitamente avviene in luoghi squallidi o in località isolate, cui si associa una variazione di tipi di compiti da svolgere che solitamente diventano ripetitivi e noiosi, nonché di secondaria importanza, o addirittura senza senso. Anche gli spostamenti continui, attuati con lo scopo di impedire al "mobbizzato" di crearsi amicizie e complicità, o di assolvere a compiti difficili, tendono all'uscita dal mondo di lavoro mediante l'isolamento della vittima. Il ricovero in clinica psichiatrica può verificarsi per un mobbing misconosciuto e creduto depressione o paranoia. In base all'analisi di un caso clinico, Ege aggiunge una voce nuova a questa fase del mobbing: sviluppo di comportamenti criminali. La vittima contrattacca, con azioni (minacce, lesioni personali, tentato omicidio, ecc.), che possono essere rivolte verso il "mobber" o verso sue proprietà (danneggiamento). Si tratta di eventualità rare, finora non descritte in Italia, che possono provocare nel "mobbizzato" un senso di benessere, come anche una profonda insoddisfazione. Il suicidio, soluzione estrema, è solitamente preceduto da più o meno appariscenti segnali di intenzioni tragiche ed è attuato previa stesura di messaggi scritti in cui si precisano i motivi del gesto. Quando il suicidio avviene in questa fase, esso deriva dalle conflittualità lavorative che slatentizzano problematiche familiari, sociali e personali preesistenti. Prima della quarta fase, invece, il fattore scatenante del suicidio è la perdita di dignità e le consequenziali tendenze depressive connesse all'autosvalutazione (secondo Ege, la percentuale di suicidi per mobbing in Italia oscilla intorno al 10%- 20%, mentre in Svezia un suicidio su sei è da addebitarsi al mobbing).






Il modello italiano si compone di sei fasi più una prefase detta “Condizione Zero”; nel dettaglio:

1) Condizione Zero: si tratta di conflittualità fisiologica connessa alla competitività presente nel luogo di lavoro ove i rapporti personali tra i colleghi sono inesistenti ed improntati ad una gelida cortesia; si instaura, a differenza del Mobbing, di cui rappresenta un “terreno fertile”, un modello “tutti contro tutti”.


2) Conflitto Mirato: si individua una vittima verso la quale s’indirizza la conflittualità generale.


3) Inizio del Mobbing: la vittima percepisce un senso di fastidio e disagio ed è bersaglio di veri e propri attacchi da parte dei colleghi.


4) Primi sintomi psico- somatici : fanno esordio insonnia, problemi digestivi, tremori, lieve stato depressivo; né conseguono periodi di assenza lavorativa per malattia.


5) Errori ed abusi dell’Amministrazione del Personale: a causa delle frequenti assenze il caso di Mobbing diventa pubblico e l’ufficio del personale invia richiami disciplinari.


6) Serio aggravamento della salute psico- fisica della vittima: si aggrava lo stato depressivo, il soggetto ricorre a psicofarmaci e terapie.


7) Esclusione dal mondo del lavoro: essenzialmente ricalca i modelli precedentemente descritti.




Aspetti psicopatologici del Mobbing.
I


In nessuna società degna di questo nome, i membri mancano del “senso di appartenenza”, che si manifesta attraverso dinamiche e rituali di tipo verbale e, soprattutto, non verbale, delineando il riconoscimento tra appartenenti ad uno stesso gruppo. Come si pone il mobbizzato nell’ambito di tale dinamica?


La sensazione di “non appartenenza”, di essere vessati, compare in soggetti che, presumibilmente, hanno una scarsa partecipazione col gruppo, una scarsa capacità di interazione; recenti studi affermano che tale capacità presenta in parte caratteristiche di ereditarietà, e in parte è regolata dall’azione, a livello del SNC, di neurotrasmettitori: resta quindi da stabilire se dall’interazione tra tale substrato biologico e vissuto psicologico non fuoriesca il profilo di una personalità particolarmente “sensibile”, volta a percepire dinamiche di aggressione e vessazione là dove non vi sia una precisa interazione di gruppo in tal senso, o, secondo un’altra chiave di lettura, se l’esclusione da parte del gruppo non rappresenti una forma di “difesa” verso un singolo incapace di interagire normalmente con le regole del gruppo stesso.


Per quanto concerne, in maniera più specifica, il quadro clinico del mobbizzato, questo non identifica una precisa entità psicopatologica, quanto piuttosto il corredo di manifestazioni di diverse patologie psichiatriche che, presumibilmente, si manifestano, a causa del fenomeno, in un soggetto comunque predisposto a svilupparle, identificando pertanto il Mobbing, più che come patologia in sé e per sé, come evento scatenante i quadri psicopatologici che ne derivano (p.e. una depressione maggiore).


Leymann, uno dei massimi studiosi della materia, ha identificato una personalità predisponente di tipo labile, debole, inerte nella vittima, mentre negli aggressori ha frequentemente riscontrato una certa tendenza di tipo sadico.


Infatti, analizzando il corredo di sintomi che ad esso si associano, questi per lo più sono assimilabili a patologie psichiatriche ben codificate, quali disturbi d’ansia e depressione; tra le manifestazioni cliniche più frequenti troviamo, infatti:


• Attacchi di panico


• Insonnia


• Irritabilità


• Aggressività fino a comportamenti francamente violenti


• Tremori


• Dolori muscolari


• Cefalea ricorrente


• Quadri simili a collasso cardiocircolatorio


• Ideazione suicida


Tali sintomi determinano, nella vita del mobbizzato, ripercussioni notevoli, sia, ovviamente, in ambito lavorativo (dimissioni, prepensionamento), sia per quanto concerne l’equilibrio psichico (supporto psicologico-analisi, ricoveri in clinica psichiatrica, fino al suicidio).


[continua]
nnanzi tutto va sottolineato come non sia stato ancora risolto un importante quesito, circa i presupposti psico- socio- patologici di questo fenomeno, se cioè esista o meno una personalità-tipo predisponente al divenire vittima del Mobbing.

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