La Signora della Fossa – introduzione
da “Polvere di Silenzi”, romanzo di Giovanni Sicuranza
Lavrange ha un’anima piccola e fragile.
Non più di un centinaio di persone, qualche decina di animali domestici; in questi numeri c’è la vita di Lavrange, paese sepolto tra i boschi lombardi.
Lavrange è soprattutto un cimitero saturo di ricordi, un raduno di ossa e vermi, più grande di tutte le case della provincia.
Nel XVIII secolo l’ultima epidemia di peste lasciò una ferita profonda, decimando la popolazione con un accanimento inspiegabile, risparmiato agli altri paesi.
La cicatrice di quella ferita è una fossa profonda, lungo il muro ovest del cimitero, dove la montagna lombarda ha uno scatto di dignità, innalzandosi all’improvviso su quella trentina.
Il recinto in ferro sbilenco delimita la voragine con il colore della ruggine. Esumato dopo secoli di guerre e pestilenze, si affanna a proteggere i vivi dalla fossa comune degli appestati.
La Fossa dei Morti, così l’hanno chiamata, e da allora così è.
Ogni tanto qualcuno dimentica il pericolo di caduta, si gonfia di curiosità o sfida, e scavalca il cancello. Oggi i telefonini con fotocamera sono un incentivo a sfidare il silenzio della voragine. Ma quello che appare negli schermi, quello condiviso su internet, è solo un grande, assoluto, nero.
“Ci sono ancora le ossa”, vi diranno se vorrete giocare agli esploratori.
Però non le vedrete, perché la Fossa dei Morti è una fauce interminabile, con denti aguzzi di pietra che la sostengono durante la caduta nel vuoto, prima di sparire a loro volta nel buio.
I nonni di Lavrange sostengono che da lì uscivano i diavoli a spargere la peste e che lo stesso fecero alla fine della Grande Guerra, quando il cimitero esondò di nuovi morti. Allora a spezzare il paese ci pensò il virus dell’influenza. Quella che in tutto il mondo hanno definito “la spagnola”.
A Lavrange era la Signora della Fossa.
Fu vista per la prima volta nel 1918, o era il 1919, sicuramente a novembre, con i vigneti gravidi, borbottano i nonni di Lavrange. Ma solo quando sono insieme, al caldo dell’osteria. Solo quando le loro parole sanno di vino.
Era bella e scura e silenziosa.
Vestita da lame di luna, ballava intorno alle case dei morenti e, quando tutto era finito, si accasciava, come esausta. A ogni nuovo cadavere d’influenza, la Signora della Fossa piangeva. Chissà, forse le dispiaceva rapire le anime e gettarle nel buio, dai diavoli. Questo i nonni non lo spiegano.
Veramente non raccontano mai la fine, se fine c’è stata, perché il vino cala sui racconti e li trasforma in cori di montagna.
Allo stesso modo, nessuno riuscirà a raccontarvi la storia di Martina.
Solo che in questo caso non si può pensare solo alla censura dell’alcol. Martina è il nome che segnò la decadenza definitiva di Lavrange.
È il tabù della fine.
Martina aveva sei anni quando il suo nome si legò alla Signora della Fossa. Quando con la sua morte uccise il paese di Lavrange.
La sua breve storia è la coralità di una comunità ormai sepolta.
Se volete conoscerla, occorre la pazienza di proseguire.
Seduti sulle scale della sacrestia, bisogna attendere l’arrivo di Don Lento. Lo chiamano così, i sopravvissuti di Lavrange, non perché i litri di alcol ne rendono instabile l’andatura, no.
È solo che qui, tra gli autunni perenni dei boschi, la gente ha capito che la religione è troppo lenta per vincere sui demoni.
Sulla Signora della Fossa.
E sulla rabbia di Martina.
[… continua …]
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