Binario 3 - Giovanni Sicuranza
Io ricordo questo di mio nonno. Mattina sopra mattina, umida d'inverno e umida d'estate, lui si alzava, penombra di silenzi, e svaniva. A volte mi capitava di vederlo aprire la porta e diventare sottile, sempre più, surreale come un fantasma mentre l'uscio si richiudeva alle sue spalle; succedeva quando l'ansia di un compito di matematica, quella per un amore irraggiungibile, mi svegliavano prima di andare a scuola e capitava spesso l'anno in cui mio nonno svanì. A casa non parlavo dei miei dolori, i miei si interessavano a me solo se rispondevo che tutto andava bene, e mio nonno, lui, aveva gli occhi lontani.
Però li sentivo, mamma che sospirava, papà che borbottava. Non per me, per il nonno.
"E' sempre peggio", "Un giorno dovremo chiamare i carabinieri e forse nemmeno lo troveranno", "Ma se va sempre lì, sempre in stazione, è questo che mi tormenta".
Era l'anno in cui mi dichiarai ai miei, l'anno in cui mio padre divenne mutacico per la vergogna di un tale figlio, l'anno in cui mia madre mi tenne con la forza con cui si deve tenere un cane indesiderato, che non si sa a chi regalare, che si teme di abbandonare per strada solo per paura delle sanzioni. Il 2 novembre di quell'anno, mio nonno non tornò a casa. All'ora di cena i carabinieri vennero davvero, entrarono dalla porta che era stata l'ultima uscita di mio nonno e dissero che l'avevano trovato, trenta chilometri lungo un binario. Il suo ultimo percorso.
Io già lo sapevo.
Aspettavo l'alba nel pianto, perché Lorena mi aveva confidato la cotta per il mio compagno di banco, proprio per lui, il mio segreto amore, e le lacrime sono silenziose solo quando non si vuole vederle.
Nonno si affacciò nella stanza, un attimo prima di uscire, e si sedette accanto a me; ce ne stavamo così, fianco a fianco, a fissare l'uscio di casa, sulla sponda del letto, come cercatori di orizzonti sul pontile di un molo. Pensai che dovevo nascondergli il dolore, che tanto non avrebbe compreso, ma le sue mani screpolate mi graffiarono il viso, le loro rughe accolsero le mie lacrime e mi ritrovai dentro i suoi occhi.
"Non passa mai", disse, non so se a me, a se stesso o a entrambi, "Il dolore si trasforma, non svanisce", e i suoi occhi erano neri ed erano bui come gallerie, "Torno da mia moglie, dai miei amici, tutti portati via dal binario 3", così disse, lento, un tratteggio di sorriso sulle labbra, "Eravamo giovani, troppo per credere di non sopravvivere alla deportazione. Invece sono tornato, io, solo", e mi guardò, mi guardò davvero, "Oggi è il giorno dei morti, lo sai?", sì, gli risposi con la testa, adagio, perché avevo paura che scaglie delle sua pelle secca mi ferissero le guance, lo so, nonno, "I treni portavano morti viventi, il binario 3 era un percorso di morte, lo sapevamo tutti, ma non ci credevamo. Non potevamo crederci. Ora che anche il binario 3 è morto, bisogna rendergli memoria", e si alzò dal letto, le sue mani mi abbandonarono, "Nessuno pensa a commemorare i binari morti nel giorno dei morti".
Io lo guardavo e in quel momento capivo perché era sempre stato curvo, pesante. Ma capivo anche perché non si era mai piegato alle proteste dei miei genitori, mai, giorno dopo giorno vagabondo della stazione, del binario 3.
"Rendi il dolore parte del tuo orgoglio", furono le sue ultime parole. Ne sono certo, le più vere dei suoi anni a casa nostra.
Però li sentivo, mamma che sospirava, papà che borbottava. Non per me, per il nonno.
"E' sempre peggio", "Un giorno dovremo chiamare i carabinieri e forse nemmeno lo troveranno", "Ma se va sempre lì, sempre in stazione, è questo che mi tormenta".
Era l'anno in cui mi dichiarai ai miei, l'anno in cui mio padre divenne mutacico per la vergogna di un tale figlio, l'anno in cui mia madre mi tenne con la forza con cui si deve tenere un cane indesiderato, che non si sa a chi regalare, che si teme di abbandonare per strada solo per paura delle sanzioni. Il 2 novembre di quell'anno, mio nonno non tornò a casa. All'ora di cena i carabinieri vennero davvero, entrarono dalla porta che era stata l'ultima uscita di mio nonno e dissero che l'avevano trovato, trenta chilometri lungo un binario. Il suo ultimo percorso.
Io già lo sapevo.
Aspettavo l'alba nel pianto, perché Lorena mi aveva confidato la cotta per il mio compagno di banco, proprio per lui, il mio segreto amore, e le lacrime sono silenziose solo quando non si vuole vederle.

"Non passa mai", disse, non so se a me, a se stesso o a entrambi, "Il dolore si trasforma, non svanisce", e i suoi occhi erano neri ed erano bui come gallerie, "Torno da mia moglie, dai miei amici, tutti portati via dal binario 3", così disse, lento, un tratteggio di sorriso sulle labbra, "Eravamo giovani, troppo per credere di non sopravvivere alla deportazione. Invece sono tornato, io, solo", e mi guardò, mi guardò davvero, "Oggi è il giorno dei morti, lo sai?", sì, gli risposi con la testa, adagio, perché avevo paura che scaglie delle sua pelle secca mi ferissero le guance, lo so, nonno, "I treni portavano morti viventi, il binario 3 era un percorso di morte, lo sapevamo tutti, ma non ci credevamo. Non potevamo crederci. Ora che anche il binario 3 è morto, bisogna rendergli memoria", e si alzò dal letto, le sue mani mi abbandonarono, "Nessuno pensa a commemorare i binari morti nel giorno dei morti".
Io lo guardavo e in quel momento capivo perché era sempre stato curvo, pesante. Ma capivo anche perché non si era mai piegato alle proteste dei miei genitori, mai, giorno dopo giorno vagabondo della stazione, del binario 3.
"Rendi il dolore parte del tuo orgoglio", furono le sue ultime parole. Ne sono certo, le più vere dei suoi anni a casa nostra.
Commenti