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Dissonanze

Dissonanze * – Giovanni Sicuranza

Io lo temo subito, il silenzio, pieno di rimproveri e disillusioni, come scoprire mia figlia che ne ha fatta un’altra delle sue. Abbasso lo sguardo e lei lo raccoglie negli occhi verdi, lo stesso colore del prato bagnato, scuro, gonfio di pioggia.
- Ti prego - voce in la bemolle, fragile, colpevole.
- Non voglio qui la nonna, lo sai – le dico e, me ne accorgo da come mia moglie scuote la testa, sto ancora arricciando il labbro superiore sui denti, digrigno come un cane rabbioso. Però magari adesso non la gonfio di botte, magari provo a trattenermi, cerco di non fare piangere mia figlia, così questa notte mia moglie me la da, con che fatica, però, a che prezzo. 
La piccola fetente ha portato mia madre in cucina; già che sia andata nella sua stanza senza dirci nulla, dovrebbe essere sufficiente ad affondare un calcio nel suo culetto paffuto, invece no, non posso; guardo mia moglie, che mi penetra in silenzio, brava, lei, a rimproverare con un’occhiata, ma non sua figlia, no, appena lui, sempre lui, il marito rognoso, e, a proposito, brava a penetrare, mica a farsi penetrare. Non me la da che sono due notti, agognate tutte, solo perché ho detto a sua figlia che se avessi trovato ancora la nonna in cucina, le avrei stagionato il viso fresco di sette anni e cinque mesi con una carica di ceffoni. 
- Lo hai rifatto – immagino il pugno che le arriva sul naso e la vedo, figlia sua, figlia mia, con i suoi venti chili, rinculare dalla cucina alla porta della stanza della nonna; sì, potrei essere la sua moviola, farle ripetere tutto il percorso, ma a ritroso.
- Nonna mi manca – esita lei, piano, voce in re minore, minore, come l’attenzione della mia musica tra le classifiche discografiche.    
Mia madre a darmi dell’idiota, dell’artista mancato; mia moglie, ridondanza di banalità, a canzonarmi perché sono un frustrato musicale, e questa è ironia, dico, proprio a canzonarmi; una figlia che arriva mentre arranco su me stesso e poi, ultimo, ci sono io, io che avrei bisogno di fiducia dal mondo. 
- Porta la nonna nel suo letto – lascio esplodere le parole, come l’apertura di una marcia – Ultimo avvertimento. 
- E’ solo una bambina. 
Eccola, questa donna sposata nella buona e cattiva sorte, dissonanza della mia vita. 
- Lo sai che la nonna è tutto per lei. 
- Sì, al solito, il lato buono della mia stirpe, vero? 
- Il lato sano. 
- Non più tanto sano - forse non avrei dovuto dirlo, forse mi sono giocato il sesso per la terza notte, ma chi se ne frega, quando ci vuole virgola ci vuole. 
- La nonna non pesa, papà – osa lei. 
- Ma puzza, tesoro – dico e, basta, le rovescio la mano sulla guancia; lei cade sulla nonna, su mia madre, piccina e secca per quanto il tumore l’ha consumata, ma ancora tanto ingombrante da invadermi la casa, con i suoi occhi, quel suo azzurro plumbeo, immoto, fisso su di me, a rovesciarmi addosso il suo disprezzo. 
- La nonna è morta, devi lasciarla nel letto funebre – mi compiaccio di queste convulsioni di figlia sopra il cadavere di mamma, hanno un ritmo rilassante – D’accordo, piangi finché ti pare, poi rimettila a posto – nella periferia della vista c’è mia moglie, mia moglie che diventa il centro, quando penso che forse questa notte con lei ce la posso fare; insomma, ora il mio tono è una melodia lunga, dolce, avrei potuto sfogarmi di più, per esempio, ecco, non ho preso a calci la piccola – Domani verranno a prenderla, la vecchia, finalmente, via, al cimitero.
- La nonna era più buona di te – gorgoglia questa disarmonia di figlia, viso svanito tra i capelli aridi di mia madre – Le vorrò bene anche domani e poi ancora.
- E’ morta – il suono perfetto del mio assolo, mi piace sentirlo, profondo, liberatorio, merita un altro passaggio – La nonna. Questa nonna. È. Morta.
- Mai quanto te – mia moglie, fredda, più del corpo di mamma; e le sue parole sono ultime, cacofoniche, marcia funebre di me stesso.

* Nessun caso per il Commissario Massimo Riserbo.

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