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Il nome


Il nome * – Giovanni Sicuranza

Ritorna la strada sotto i piedi della donna.
Lei dice che ha fatto un viaggio lungo, è stanca, eppure non importa; il nome la chiama, per cui eccola tra noi. 
Alza le spalle, ci guarda appena, noi seduti ai tavolini del bar, e dice che troppe volte nell’usura del tempo ha ripetuto il nome a se stessa, il nome di un uomo, e ormai questo nome, proprio questo nome che non svela, le ha scavato una cicatrice nel cervello. 
Noi la fissiamo, perché sa di sudore e di terra, noi gente semplice del paese, e in lei vediamo le colline aspre della vita nostra, i solchi dell’aratro che feconda i campi, i raggi della luna che danno splendore alle nostre notti. 
I suoi occhi, invece, non ci vedono davvero, non si interessano a noi, sono adagiati altrove, immobili, due lapidi blu in un cimitero.
È innamorata, ride Marcos, seduto accanto alla mia cerveza, le spalle piegate dal lavoro che sussultano appena, ahi, le duole il cuore. 
Non è il cuore, dico io, a voce alta. 
Tutti si voltano verso me. Tutti tranne lei. 
I suoi occhi rimangono nell’imbrunire tra le colline, dentro il sangue del cielo. 
E cos’è, gorgoglia Marcos, e ride ancora, perché, intanto, con la mano chiusa a pugno, lacera l’aria nel gesto di una scopata, dimmi, amigo, allora ha voglia di questo?
Io taccio. 
Marcos è un come un toro immortale, i muscoli del collo sono impossibili, ma credo che la donna, la donna che cerca il nome, potrebbe essere così rapace da riuscire a ghermirlo, se solo volesse. 
Lei tace. Non si muove. 
Cerco il nome, dice, ma non a noi. Mai parla a noi.  
Non è il cuore, amico, bisbiglio a Marcos, la mia mano che sulle sue spalle sembra un insetto fragile e pallido. Ed è certo sesso, ma non è solo sesso. 
Embè, fa lui, scrollandomi via. 
Sospiro.
Sei sciocco, sei una grassa e grossa sciocchezza. I poeti narrano che si ama con il cuore, gli amanti lo leggono e ci credono. Gli amanti credono per fede. Lei no, non la senti? Lei ha capito che è quante volte ripetiamo il nome di qualcuno a farcelo desiderare, che la passione, il desiderio, e l’amore, tutto, non sta nel cuore, sta nella testa. 
Mah, tu leggi troppo, cabrón, leggi troppo e libri sbagliati, lo dico sempre, per questo sei strano e con le femmine non vai lontano.
Nessuno ride. 
Le ombre del tramonto si prendono i nostri tavolini, dalla fila più avanti, al limite della strada,  si sdraiano già sul mio. Scosto appena la sedia, un passo indietro tra la polvere del selciato. 
E adesso dove va?, dice un vecchio dalla prima fila, la testa già incappucciata di buio.
La strada si muove sotto i piedi nudi della donna. Sono piedi velati di polvere, piccoli e decisi, che ci lasciano e si portano via i silenzi e il corpo di lei.
E’ tutta matta, quella, dice l’altro vecchio accanto al vecchio. Hanno voci che ben si adattano a queste ombre, voci fragili, prossime alle morte.
Credo che sia tornata per l’uomo morto la settima scorsa; ricordate, era qui solo per lavorare, sì, ed è morto così, con la vanga tra i calli, e ci diceva che proprio qui si era sposato, anni fa, con la donna más hermosa de la tierra; erano rimasti affascinati dalle nostre colline. 
Bien, ma nessuno di noi lo conosceva, mi fa Marcos, piano; insomma, non si muore senza dire a nessuno il proprio nome; 
una pausa, Marcos così grosso, adesso così cauto; 
mah, quel tipo, non so, mi sembrava troppo strano. 
Come te, potrebbe aggiungere, e potrebbe anche ridermi addosso. Non lo fa. 
Chissà, dico, e mi stringo nelle spalle, mentre il freddo del tramonto si distende sotto la camicia. 
La donna sfuma tra la polvere del selciato, lungo la salita al cimitero. Socchiudo gli occhi, cerco di metterla a fuoco; già sembra un fantasma, diafano tremolio dentro un vestito colore della notte senza stelle, sotto le ferite rosse del sole morente. 
Il nostro è un cimitero che non ha nome, perché deve accogliere i nomi di ogni defunto.  
Credo di dire anche questo a Marcos, e a tutti gli amici diventati ombre da bar, ma non ne sono sicuro. Parlo come in un sogno, mi sento dissociato, e anche sereno, aperto al buio che ci veste.
Non vedo più la donna, ora, ma immagino la strada che si apre davanti a lei, giunta alle lapidi, come mano di ghiaia in offerta. 


Lo chiamiamo amore e crediamo che il suo bisogno nasca dal cuore, ma è tutto qui dentro, vedete, dentro la scatola cranica; è il nome di qualcuno che diventa familiare, sempre più, sempre più dentro il nostro cervello, fino a plasmarlo. È il nome di una persona che rimane indelebile, perché, in noi, si è fatto sinapsi. 
Forse dico questo. 
Esito, mi guardo intorno ancora una volta, tra i sipari muti dei miei compagni di bevuta. 

Forse, per dare un senso al nostro ricordo, basta che una sola persona abbia ripetuto a lungo il nostro nome; intendo, gli altri possono anche non saperlo. 
E poi mi alzo, veloce, sul desiderio improvviso di tornare a casa, dove una donna mi attende.
Una donna con un tale nome, così familiare, da rendermela unica.


* dal romanzo “Sotto la terra qualcosa campa” – immagine: "Donna senza volto", Teresa Lupo (incisione)

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