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Puoi contarle

Puoi contarleGiovanni Sicuranza


Non si riesce, figliolo.
Cosa?
Puoi contarle, non è il numero il problema, è il loro modo di essere esposte.

Lo sguardo di figliolo cerca aiuto al cielo, ma rimane intrappolato nella navata del Comune, questo palmo di mano in granito che avvolge i pianti e pesa sulla morte.
A coprire il pavimento e i mosaici dell’epopea medievale e i coriandoli in granito, che rappresentano la memoria collettiva delle feste popolari, ci sono loro, le fila.
Fila allineate, ordinate, disciplinate.
Fila mute.
Fila che ogni ora si allungano, si allargano, assembrano i marciapiedi e la strada che unisce il Comune alla Chiesa.  
Figliolo soffoca un colpo di tosse, riprova.
Una, due, tre, quattro
cinque, sei, sette, otto, nove,

Stai attento.
Uh?
Barcolli, figliolo. Sicuro di continuare?
Uh?
Vieni, appoggiati a me. Sudi.
Sì, mi sento, ecco, ho lo stomaco duro, come.
Come queste bare.
Non finiscono più.
No, figliolo, non oggi.
Signore, temo, credo che.
Hai la febbre.
Davvero?
Lo sapevi, no?

Uno strattone, figliolo si inarca prima verso di lui, questo vecchio possente che lo afferra al braccio in una tenaglia di rabbia, un macigno di usura lavorativa nei campi e nelle fosse cimiteriali, e il respiro dopo è scagliato contro la colonna che è stata un sollievo per la spossatezza e adesso diventa un pugno sulla fronte.

Idiota, dovevi stare a casa, idiota, dice il vecchio, così lieve che la mascherina nemmeno percepisce il movimento delle labbra.
Anch’io ho la mascherina.
E a cosa serve, adesso, dimmi, a cosa serve a noi tutti la tua stupida mascherina da tre strati salva freschezza?
Ho solo un po’ di tosse, ecco.
Quanti?
Cosa?
Quanti ne hai maneggiati in questi giorni, figliolo? Quanti cazzo di morti hai toccato?
Non so, signore, non li conto più. Ieri c’erano quelli penzoloni dai balconi delle loro case, li abbiamo tirati giù con le scale. Forse sei, no otto, credo.  
Intendevo prima, idiota, prima di ieri.

Il carro funebre manovra dalla Chiesa e suona, una volta, due volte, il furgone dell’obitorio frena a un passo dal veicolo, la gente viva ha un sussulto corale, i morti a decine se ne stanno nelle bare di legno.

Prima di ieri, ecco, io, io non so.

Due spari, tre quattro cinque, figliolo che si porta le mani al petto e si piega sull’addome, colpito dai colpi, figliolo che tenta di riprendersi l’aria, ma l’aria è più veloce di lui.
In questa era di inverno virale, l’aria si allontana ovunque la cerchi. 

Meno male che tossivi poco.
Non credo di stare tanto bene.
Davvero? Però credevi di rimanere qui a fare la conta delle bare, al mio fianco, vicino a questa gente.
Non capisco.
No, certo, ringrazia che sto ancora sussurrando, altrimenti ti avrebbero già linciato e, quanto è vero che questo virus è più grande del tuo cervello, se continui a tossire nemmeno io posso salvarti.
Mi porti via.
Quanti cadaveri hai maneggiato nella scorsa settimana?
Ma, signore, io non so davvero. Aumentano ogni giorno, li portiamo via dagli ospedali, in fretta, nascosti, a volte ce ne accorgiamo perché i loro piedi sporgono dai davanzali delle case, altre volte cadono giù così, così, dai balconi, lo sa, li scopriamo nascosti nelle siepi dei giardini privati, lo sa, tutte le mosche, l’odore, le mosche.  
Cerca di tirarti su, stai attirando l’attenzione.
Dove mi porta?
Mi avrai già contagiato, idiota.
Ma no, senta, non è mica detto, forse è solo una faringite, forse, signore, ho bisogno di sdraiarmi, signore.
Vieni con me, figliolo.
Voglio dormire.
Lo so.

Il vecchio e il figliolo si fanno largo tra le bare, la memoria del paese che sorregge e trascina la speranza del paese, la gente comprende, cessa il pianto, mormora, si allontana.
I militari osservano, immobili nelle divise colore neve, alieni tra le maschere di protezione biologica.
Figliolo li segue con iridi umide di nebbia, scorge musi squadrati che si allungano oltre il mento, le valvole respiratorie come fauci di insetti in attesa della preda senza respiro.

Voglio aria, signore, la prego, non.
Stai zitto, sei pelle e ossa, eppure pesi come un sacco di letame di vacca, figliolo.
Perché non mi porta al campo militare.
Tre colpi, rapidi, secchi, ortica feroce per la gola, fiamma per i polmoni.

È così che scopri infine i tuoi polmoni, figliolo, gli aveva detto il vecchio il giorno in cui li avevano affiancati nell’opera di smaltimento cadaveri, Ti accorgi di averli quando King Corona V sta soffiando nelle loro cellule, già, e vuoi sapere qual è il brutto? Sì, ridi ridi, adesso ti sembra facile, ma tocca a tutti noi, sai, siamo carne da riproduzione per King Corona, un grasso, enorme allevamento intensivo per i suoi vironi. Comunque, ascoltami, perché in questi giorni avremo poco tempo per parlare. Il brutto è che se King Corona troverà i tuoi fragili, scoppiettanti polmoni, uno qui e l’altro al suo fianco, finalmente li percepirai dentro di te, dopo anni e giorni e secondi che si sono mossi nel silenzio per permetterti di respirare, ti renderai conti di quanto ti sono nemici, dei corpi estranei, pesanti, roventi, artigli dal petto al cervello.

Andiamo in ospedale, signore?
Non c’è tempo, figliolo, mi dispiace.

Il vecchio e il suo sacco si fermano.
Figliolo si piega in ginocchio, figliolo che è un cerino acceso e brucia ossigeno; le sue mani, tese, si serrano sul bordo di legno.

Non così forte, figliolo, rischi di romperla, non ne abbiamo più molte e ormai sono tutte in legno grezzo.
Perché?
Beh, ma dovresti saperlo, non ci sono più feretri secondo regolamenti, questi ormai non sono nemmeno più a tenuta stagna da almeno un mese.
Signore, perché mi spinge qui dentro?
Ah, parli in modo spezzato, sibili, mica avevo compreso. Vedi, figliolo, ti ho già detto che non abbiamo tempo, dobbiamo accelerare lo smaltimento degli infetti, mi dispiace.
Perché?
Entra nella bara, figliolo.
Signore.
Non c’è più aria per te qui fuori.
Mi dispiace.
Porteremo la notizia della tua morte a tua moglie.
Mi dispiace.
Ai tuoi figli.
Oddio.
Avranno la rendita.
Sono giovane, perché io, signore, perché io.
Figliolo.
Signore, mi lasciate morire con il virus.
Con il virus, sì, insieme nella bara.

Il vecchio solleva le rughe del volto dal torace di figliolo; i calli delle mani sollevano il cofano e un’ombra buia si adagia sul corpo.

Ti dico un’ultima cosa, figliolo. King Corona V è cieco, però ha molta memoria.
Mi dispiace, signore.
E si ricorderà di noi anche quando lo avremo seppellito del tutto.

Il vecchio tenta un sorriso di conforto, sebbene i muscoli dei sorrisi si siano atrofizzati in tutto il mondo. 

Allora buona fortuna, signore.
Buonanotte, figliolo.

Chiude il coperchio, si alza del tutto e, mentre i colpi di tosse fanno sussultare il feretro e risuonano amplificati dagli urti sul pavimento, mentre diventano tuoni negli echi della navata, solleva la mano, piano, in un saluto solitario.


(immagine: Vitangelo Moscarda: “No One Knows Where Its Gone”)
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