L’ombra
di Giovanni Sicuranza
Come in ogni tempo, anch’io costruisco i nostri sentieri su odori e sapori.
E da tempo ho appreso nel mio ruolo sociale di battitore che i percorsi devono avere due caratteristiche per essere validi.
Succosi per la scoperta di cibo, rapidi per la conservazione della vita.
Siamo esplorazione veloce spesso senza ritorno, persa in agguati voraci.
L’ombra è il pericolo che temiamo di più, quello di cui si sussurra fin dal nostro inizio. L’ombra che cade dall’alto e si spande di nero, grande, sempre più grande, assoluto, fino ad esplodere al suolo e schiacciarci con il peso della sua sentenza di morte.
Ora, fermo a metà del mio sentiero quando invece dovrei correre, già smarrito dalla fila, ricordo perplesso ciò che mi hanno suggerito i miei compagni.
Si sa che dopo averci schiacciato, l’ombra si solleva, su, in alto, veloce, portando con sé i nostri corpi appiattiti di morte. Diventiamo punti perduti nel suo mistero.
Per questo, una parte di noi crede che l’ombra sia una divinità incomprensibile, indifferente o avida di sacrifici. Ci uccide e trascina i nostri corpi su, nel cielo, come se fossero diventati anime.
Ecco perché alcuni di noi hanno proposto di placare l’ombra anticipando i suoi sacrifici.
Io non so, non penso. Agisco per il bene della colonia, ma in un soffio di coscienza solitaria mi sono fermato qui, in mezzo al sentiero. Questo mio sentiero di odori e sapori è anche il mio ultimo viaggio. La divinità va placata.
Sono il prescelto del primo sacrificio, lo so, perché sono il più anziano, quello che ancora è sfuggito all’ombra.
Ascolto le voci delle antenne che sempre più frequentemente narrano di ombre calate dal cielo con tuono di profonde camminate. E vedo diventare sempre più povero di vita il nostro formicaio.
Quando tornerò, ad aspettarmi ci sarà la regina madre. Se prima non mi incontrerà un’ombra.
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