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Attese


Attese 
da “Sotto la terra qualcosa campa” – Giovanni Sicuranza


Pic, pic, 
pausa
pic
Piccoli passi sul vetro, questa pioggia fragile e spaventata giunge dopo settimane di afa al capezzale del paese. 
Non ce la fa, è tardi, dice la donna all’uomo e tutta la frase ci sta, lenta, tra una goccia e l’altra. L’uomo sa che non sta parlando della pioggia e stringe forte la maniglia della finestra, la stringe e vorrebbe fare lo stesso con la morte.
Lui, un giorno, l’hanno chiamato Meridiano ed ecco come lo conoscono, con il ventre che si tende ad arco tra i poli del corpo massiccio, un omone così tanto, che quando la Benedetta lo aveva scelto come sposo, al paese si scherzava, “Ti sei fatta attrarre dalla sua forza di gravità”, e la Benedetta ci stava e rideva e pensava che un mondo ha bisogno di una luna per rimanere stabile. 
In questi giorni, però, le lune non bastano ai mondi e i mondi smarriscono le lune.
Non voglio vederla, dice Meridiano. 
Una mano di lei sfiora quella di lui, la apre, entra dentro. 
Non la vedrai. 
Non voglio, nemmeno quando ci assegneranno la bara. 
No. 
Faranno tutto loro. 
Sì, fanno sempre tutto loro.
Pic, singhiozza la pioggia sul vetro a un respiro dall’uomo e dalla donna, e, pic. 
Il bosco di Lavrange, intorno, è un mondo che tace. 

***

0,7 secondi. 
È il tempo di sopravvivenza dopo essersi schiantati su un cedro dell’Atlante a novanta chilometri orari. 
Zerovirgolasettesecondi e per sempre 
basta. 
Rimane un frullato di carne, sparso ovunque nel raggio di centinaia di metri, in massima parte materia encefalica che si arrampica sulla corteccia del tronco. 
La donna osserva dall’altro lato della strada, gli occhi socchiusi e fissi, attenti come un predatore, fende la folla attorno all’albero e si distrae un istante solo a seguire gli uomini che trasportano la barella avvolta dal lenzuolo grigio.  
Sospira e stringe le mani a pugno. 
Il ragazzo è stato fortunato, morto all’istante e di morte violenta. 
La morte improvvisa, traumatica, ancora incuriosisce la gente di Lavrange, rimane un evento. 
L’altra morte, invece, è diventa rimozione totale e non è solo morte; è orrore che si attarda due o tre giorni a mostrare vomito nero, schiuma rosata, a sparge fetore di decomposizione nei corpi erosi dal virus.
Questa morte, i paesani di Lavrange vorrebbero dimenticarla; la vita non è più la routine dei loro giorni e ogni altra forma di trapasso, diversa dall’epidemia, diventa almeno un evento di raduno. 
Quando invece le persone si sfaldano nei loro stessi liquami, vinte dal virus dell’influenza, i corpi vengono lasciati ai bordi delle strade, nelle camere, ovunque si sia spento il respiro, finché non passa uno dei carri bestiame precettati dal Comune; e anche dopo, nel viaggio di massa al cimitero, i vivi fuggono. 
Le persiane serrate, le vie deserte, i familiari troppo tesi a sopravvivere per accompagnare i propri cari nelle fosse comuni.
Un cimitero che attende il cimitero, questo è oggi il mondo. 
La donna, invece, passa e osserva. 
Nessuno ne conosce l’età, ognuno, che sia giovane o anziano, ricorda di averla vista da bambino; tutti la conoscono come la strega di Lavrange. 
Lei è Nostra Signora della Fossa. 
Non possono arrestarla, perché prove che sia lei l’untrice dell’epidemia non ce ne sono, anzi, a parlarne si rischia di essere presi per creduloni medievali e questo il conformismo non lo permette nemmeno in una zolla di montagna come Lavrange. 
Chi ha provato ad aggredirla ha fatto una fine brutta, pessima; la gente lo sa, anche se continua a narrare che il Cappellì è caduto nella fossa accanto al cimitero per un maldestro sasso, che se ne stava a ciondolare al limite, dove non doveva, e proprio mentre la guardia forestale, intima di ogni vagito del bosco, ci appoggiava sopra lo stivale in pelle di cane. Ah, sì, era fatto così, il Cappellì, adorava i suoi cani, e se li portava dietro anche quando morivano, un po’ nelle calzature, un po’ nei vestiti, i denti nella catenina al collo. 
Adesso sono tutti dispersi nella voragine della fossa.  
E la donna, questa strega di paese, se va in giro, lenta, fiera, e intorno a lei c’è il vuoto, il vuoto di una morte non la coglie.  
Oggi Nostra Signora della Fossa si allontana dall’incidente con un peso sul petto; mentre la gente commenta la vita di un ragazzo stroncata sull’albero, lei sospira. 
Il Cedrus Atlantica è sulla strada della piazza da oltre due secoli, con la sua altezza di quaranta metri, la chioma folta, è dominante sulla fragilità della specie umana; eppure nessuno piange per il trauma che ha subito nello schianto con il corpo del motociclista, nessuno si dispiace nel vedere la sua corteccia bruna violata dalla materia cerebrale del giovane gradasso. 
Non so se sono una strega, pensa Nostra Signora della Fossa, non comprendo come avrei portato l’influenza, se la gente lo crede sarà vero, però so che ognuno di loro merita l’estinzione. 
A un passo dal cancello del cimitero si ferma. Accanto alla fontana, su un carro a trazione bovina, giacciono accatastate una decina di piccole bare. 
Nessuno sembra avere avuto tempo o interesse per seppellirle.  
Nostra Signora della Fossa ne sfiora una, in bilico tra il bordo del carro e il vuoto, la mano lunga che trema sull’umidità del coperchio, dove i chiodi allentati lasciano traspirare la decomposizione. All’inizio le bare erano a buona tenuta, tutte in zinco, adesso si fabbricano alla svelta con ogni tipo di legno, ovunque sia possibile trovarne. 
Dagli steccati dei campi, dal bosco. 
Gli uomini abbattono decine di alberi per le loro casse da morto e più la morte avanza, più alberi cadono. I luoghi colpiti dall’epidemia non si svuotano solo di persone, perdono anche la vegetazione. 
Presto, lei lo sa, toccherà anche al cedro.
La mano si ferma sull’angolo più in bilico della bara, le dita si chiudono, il pugno si solleva, scala l’afa della morte e si abbatte sul coperchio. 
La cassa ha un singulto di rami spezzati, si inarca nell’aria e si schianta sul selciato, aprendo al mondo il suo contenuto. 
Ai piedi della donna, un liquido verde palude affoga la ghiaia; 
intorno alla donna, un odore di carne frollata banchetta con l’ossigeno. 
Nostra Signora della Fossa riprende il cammino, gli occhi distesi sulla casa sottostante al cimitero.   
Un carro bestiame rallenta accanto al portone, i due cavalli sono scarni, chiazzati da sangue e cicatrici su cui si assembrano folle di mosche; quando si fermano, gli uomini con la divisa da spazzini saltano giù e bussano, rapidi, decisi. 
Anche Nostra Signora della Fossa smette il cammino, si siede su un tronco abbattuto e inizia a cantare, piano

What is this that stands before me?
Figure in black which points at me

Gli uomini svaniscono nelle ombre dell’androne.
Un urlo smembra l’aria.
Un urlo di madre, un urlo che lei sa nel profondo.
Nostra Signora della Fossa cerca uno spiraglio tra le finestre serrate e continua la cantilena 

Turn’round quick and start to run,
Find out I’m the chosen one

I Black Sabbath sono la sua band preferita, li ha cantati anche mentre la bambina di quella casa affogava nell’emorragia polmonare; il canto le riempiva le orecchie per non ascoltare i silenzi attoniti dei genitori. 

L’urlo, ancora,
violentato dal dolore, 
nudo di consolazione.  

Nostra Signora della Fossa socchiude gli occhi sulle figure che escono goffe dal portone, curve al carico avvolto nel sudario; le vede oscillare con le braccia, una volta, due, tre, un rapido sincronismo, il fagotto che sussulta appena nei miasmi di Lavrange e finisce al centro del carro, senza suono, affondato tra altri sacchi di morte. 

Di questa donna la gente narra che è una strega, perché mai si è maritata, mai ha lavorato, e sempre ha vissuto nel bosco, sopra gli alberi. Perché ha tanti di quegli anni, che tutti, nei canti delle taverne, nelle alcolemie dei bar, giurano di averla conosciuta da bambini. 

Questa donna antica interrompe il canto, si alza in piedi, si prepara all’arrivo del carro. 
Lo fa per ogni carico che porta i bambini al cimitero, ora che gli alberi dove giocare sono trasformati in bare, ora che il virus e gli uomini uccidono il tempo della crescita. 
Attende e intanto liscia la gonna lunga, nera, con le mani che hanno il colore della cera e le dita lunghe come la cera quando cola al suolo. 

Questa donna rigettata non sa se è davvero la strega di Lavrange o solo la mamma che, in un giorno smarrito dai ricordi, ha perso la sua cucciola; quattro anni bruciati con il bosco, soffocati, liquefatti dal calore come adesso il virus brucia i respiri. 

Nostra Signora della Fossa non sa se l’incendio fu nutrito solo dai bracconieri e dalle guardie forestali corrotte; sa, invece, che a Lavrange nessuno si curò del suo smarrimento, sa che nessuno volle dare sepoltura alla bambina della vagabonda degli alberi.

Adesso attende i corpicini che giungono quassù, a decine, giorno brucia giorno, e, quando gli spazzini si allontanano dal cimitero, canta loro un’ultima nenia. 
È alta, è buia, questa donna solitaria, ed è maestosa come un cedro. 


[continua in versione integrale nell’edizione cartacea, di prossima pubblicazione; in particolare, per il riferimento al Cappellì rinvio al link http://sicuranza.blogspot.it/2014/02/grandi-geronti.html]

[immagine: “Femme debout”, Alberto Giacometti, 1956]

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