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Dove giacciono i racconti



Dove giacciono i racconti – Sotto la terra qualcosa campa
– dal romanzo di Giovanni Sicuranza



Leopoldo che si sposa all’alba e muore al tramonto.

Lui, mio amico per quanto il mio desiderio di uccidere gli permetta di essermi amico, questo uomo all’apice della vita, scrolla le spalle.

Non lo vedo, è seduto dietro, sulla cima delle scalinate dell’Albergo dei Tre Atti, ma so che si è mosso, so come si è mosso, perché il ringhio infastidito della zanzara tigre mi entra nelle orecchie. E’ la zanzara che si nutriva della spalla destra di Leopoldo, l’ho vista adagiata tra i sudori della sua camicia, grassa e vermiglia, gonfia e vorace. 

Sembra una filastrocca, dice Leopoldo con l’ultima sillaba che si sgonfia in un sospiro.

Leopoldo che si sposa all’alba e al tramonto muore, Leopoldo seppellito nel cimitero dell’albergo, tra le braccia della sposa e dell’amore.

Adesso smettila, non mi diverte.

Annuisco, sì, è una nenia pesante, non mi vengono rime di sangue e intanto osservo l’orizzonte, che però si nasconde, fagocitato nell’informità della notte.

E però sarà così, mormoro, fra due giorni, a quest’ora, tu e la tua donna sarete morti.

Vedi quelle luci laggiù, tutto intorno a noi?

Sembrano fuochi sulla spiaggia.

Invece no, amico ultimo, sono solo i respiri del cimitero, fuochi fatui, vaghi come le nostre esistenze; da come la voce mi sovrasta, immagino Leopoldo che si alza.

Devo accogliere i fantasmi pellegrini, adesso, tutte le notti è così, fino al primo mattino, quando se ne tornano alle tombe.

Senza pagare il pernottamento, scommetto.

Già, te l’ho detto che questo albergo va in rovina.

Metto le cuffie dell’Ipod, forse schiaccio la zanzara in un orecchio, non lo so, a volte, quando mi sveglio, trovo macchie di sangue sul cuscino e sulle lenzuola, ma non mi curo di verificare se sono mie o di altri animali, mammiferi umani inclusi.

Gli Atrium Animae allungano la musica su “Signum Iudicii”, una lamento che accompagna i passi dei fantasmi vicini.

Vorrei chiedere a Leopoldo come farà con gli altri ospiti, quelli viventi, cosa dirà per giustificare questo albergo infestato in riva al mare e al cimitero, ma la musica è piena di angoscia ed io non oso dissacrarla con questi particolari che, in realtà, non mi riguardano.

Chiudo gli occhi, divento notte nella notte che mi avvolge, mi perdo.  

Poi gli Atrium Animae fanno silenzio, le cuffie scivolano dalle orecchie e io

sento.

Qualcuno è seduto al mio fianco, piange; intorno l’aria è metallizzata, fredda, e io

non mi muovo.

Lo sai perché piango.

Io

non rispondo.

Intorno c’è solo gelo, un gelo nero che ritrovo dentro, io

non apro gli occhi.

Lo sai chi sono.

La voce è quella della zanzara, ha lo stesso ronzio di fondo, arrabbiato, feroce, la zanzara avida che è femmina. 

Cerco di pensare se ho già ucciso in questa zona, una donna, forse una ragazzina.

Chissà dov’è Leopoldo, gemo.

Intrattiene gli ospiti, mi risponde la cosa, un singhiozzo, un altro e poi, mi devi ascoltare, rantola, la tua posizione non è negoziabile.

Mi nascondo tra le braccia, affondo nella canzone degli Atrium, quella che arriva sull’Ipod, silenziosa e improvvisa come un ectoplasma, “Angelum Abyssi”, o forse no, faccio fatica a riconoscere il lamento delle note.

Una volta li sentivo dire che ero malato, che avevo le allucinazioni, di quelle all inclusive, uditive, visive, olfattive, percettive, ma mica vive; insomma, la mia schizofrenia paranoide era l’evoluzione perfetta delle psicosi, questo sentenziavano, ed erano i convinti, gli irremovibili, eppure tanto fragili, a ucciderli ci voleva niente.

I fantasmi, invece, mi ballavano intorno.

Ho deciso di stare con loro.

Chiamale allucinazioni, se vuoi, rimangono l’unica furia che conosco. La mia viene sempre dopo la loro.

Per cui, questa signora che mi piange accanto, che priva la notte del tepore e si nutre della mia vita come una zanzara nera, questa dama che non voglio vedere, la sconosciuta che mi sta scopando l’anima, ha ragione.

Sono in una posizione non negoziabile.

Passa veloce, tutto, e si consuma, e tra poco dovrai seppellire il tuo amico e la sua sposa, mi dice questa lei informe con un timbro che mi graffia come carta vetrata sulla pelle; sai, a me questo posto non è mai piaciuto, la terra è piena di cose strane, la terra sotto, voglio dire.

Non ho l'emotività per sorridere, eppure questa frase la merita; dalle labbra mi scappa uno sbuffo rigido, diafano, l'ectoplasma di una risata; già, forse non te ne sei accorta, le dico, ma intorno all'albergo c'è un cimitero e quindi, scusa, è roba di casa tua.

Non mi scusa, no, e sento come mi guarda, sento la risacca del male che mi annega, mentre qualcosa che viene da lei, che è lei, mi sfilaccia le fibrille muscolari della guancia, frantuma i mattoni cellulari del mio viso.

Ti prego, mi accuccio, le ginocchia sollevate fino al viso, i pantaloni pesanti di lacrime e piscio, ti prego, basta. 

E tutto smette, di colpo ritrovo il fiato e la consistenza del mio volto; mi rimane solo questa consapevolezza, nera, di essere stato avvicinato per un istante alla putrefazione della morte. Addosso, intorno, l'aria è acre e fetida di urina e di qualcosa di dolciastro, di immoto. Di perduto.

Vivrai qualche anno in meno per questa tua insolenza, sappilo, gorgoglia la femmina al mio fianco.

Quanto meno?

Non ricominciare.

Silenzio. 

Penso a cosa può esserci qui sotto, se non questi cadaveri, che attendono le oscurità per un salto all'albergo, a combinare cosa, poi, Leopoldo non lo ha detto, e i vermi della morte e le radici contorte della pineta. Da domani notte ci saranno due cadaveri in più, il mio amico, la sua sposa, ma non capisco come possano rappresentare le cose strane sgradite alla lei al fianco. Magari è una buona domanda o forse, mi dice questo nuovo odore dolciastro di me stesso, forse no.

Silenzio.

Da togliere il fiato.

***
 

C’è qualcosa che tenta di entrarmi nella coscia, batte con insistenza, tonf tonf, ed io

spalanco occhi e braccia e bocca e

urlo, più stupito dalla luce che mi scende addosso, che dal fastidio.

-          Stai calmo, ti sei addormentato in veranda.

Leopoldo. Leopoldo che si sposa all’alba, in piedi al mio fianco, lungo e eroico nibelungo. Biondo, votato alla morte con la sua donna.

-          Dammi ancora un calcio e ti uccido prima che sia domani.

Non mi piace quando ride, perché capisco che lo fa davvero, non finge, insomma, questo umano gode della vita.

-          Smettila.

-          Insomma, smettila di darmi calci, uh, smettila di ridere. La smetto anche di aspettarti per la colazione, se credi.

I denti mi serrano labbra, gli occhi scappano da un lato, poi dall’altro. Mi alzo piano, dolorante di umidità.

-          Lei dov’è?

Leopoldo si stringe nelle spalle. Non smette di sorridere, non lo vuole fare, forse dovrei sputargli in bocca.

-          Verrà questa sera, vuole vederti prima che tu la uccida.

Un attimo di disorientamento nel tempo e nello spazio, aspetto che l’aria del mattino mi punga, poi comprendo.

-          No, non dicevo tua moglie. C’era una donna qui, ieri, con me. Cioè, no, un fantasma, credo.

-          Ah.

-          E adesso dove vai?

-          Torno dentro. Fa freddo qui, la colazione aspetta.

-          No, aspetta tu.

Leopoldo, quello che tende ad essere mio amico come si può essere amici di un sociopatico, gira appena la testa, lo sguardo che si inclina sulla spalla, dove la mia mano lo trattiene.

-          Non ho visto donne, non c’erano fantasmi – mormora.

-          Ma, no, ehi.

-          Adesso, amico, lasciami tu.

La mia mano si affloscia nell’aria.

-          Tu hai detto che di notte nell’albergo arrivano i morti dal cimitero.

Leopoldo sale l’ultimo gradino e si ferma.  

-          Forse perché mi andava di dirlo – dice, dandomi le spalle - I fantasmi esistono solo se ne parliamo.

-          E la donna che era con me?

-          Per quel che ne so, ti sei addormentato qui, da solo.  

Mi lascio alla gravità, alla sua piccola e persistente tenacia, cado a sedere, le scalinate gemono, io anche.

-          Era reale.

-          Forse sì, se lo credi.

-          No, mi diceva cose, sentivo bene la sua voce – deglutisco – Sentivo la sua morte.

Una pausa. In questa pineta che è spezzata dal sentiero tra il cimitero e l’albergo, tra questa vegetazione che si spinge fino al mare, non senti un insetto, non un uccello. In questo angolo di vita tutto sa di vuoto.

-          Forse siamo noi, i morti.

-          Cosa ti ha detto?

-          Perché ti interessa? Nemmeno mi credi.

-          Cosa ti ha detto?

Mi volto verso di lui; la luce del sole si spezza sotto la veranda, perde terreno, e ne sfuma la figura in penombra; Leopoldo il fantasma. Leopoldo che deve morire tra un giorno o forse è solo un’allucinazione.

-          Mi ha detto che domani, al vostro matrimonio, nell’attesa della morte, dovrò raccontarvi storie e poi ancora storie, tutte brevi, questo mi ha detto. E poi ha detto che lei è Nostra Signora della Fossa, strega degli incubi Lavrange.

C’è un’ombra di vimini, avvinghiati a formare una sedia, giace al lato sinistro dell’ingresso dell’albergo. È lì che cade Leopoldo, viso nero tra mani nere.

-          E poi racconta, mi ha detto, perché non siete romanzi, ma storie piccole, e mi ha detto anche questo, ha detto che siamo brevi e frammentati, destinati ad intrecciarci uno con gli altri; e a terminare, sempre, prima della speranza.  

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