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Lungotreno


LungotrenoGiovanni Sicuranza

Verso casa, finalmente, in treno; luce e buio, i lampi del tramonto, le notti delle gallerie. La carrozza mi ipnotizza con i flash del mondo attraverso i finestrini.

Sono assonnato, la testa se ne va al ritmo del viaggio, ciondola come i pupazzi che muovevano il muso di cane dal parabrezza posteriore dell'auto di mio nonno - chissà che fine hanno fatto, i pupazzi, l’auto, la memoria del nonno. Le palpebre cadono e si sollevano e cadono, invecchiate in una giornata a scrivere racconti, e oltre loro la campagna corre, perde particolari, fino a diventare un naïf verde palude. 




La donna mi siede di fronte e accoglie nelle mani il capo reclinato dell'uomo. 

Lei e lui, fianco a fianco, fianco nel fianco, intimi, lei che mi sorride, fragile, lui che mi fissa con occhi spalancati di morte.

Si scusa, la donna, mormora che il marito è defunto da questa notte, appena, e già odora forte; la colpa è del caldo, che un infarto, se deve venire a prenderti, meglio sarebbe d’inverno, mai durante il solstizio, però, altrimenti si torna dalla tomba a spaventare le famiglie. Suo marito, almeno, è spirato deciso, non ha voluto sentire ragioni, pianti e imprecazioni, sempre testardo, in morte come in vita. 

Mentre lo dice le sue mani se ne vanno per i profili affilati del naso defunto, si attardano intorno alle narici, scendono sulle labbra mute; una carezza, forse, e forse più un gesto per rassicurarsi dell’estinzione assoluta del respiro. 

Però è pulito, aggiunge, il tono compito, gli ho appena cambiato le mutande nel bagno del treno, e la fatica, la fatica; 

una pausa, un sospiro;

insomma, non dovrebbe perdere altre cose dall’intestino; 

una pausa, un sorriso sgraziato; 

non crede, giovanotto?

Il sibilo in fondo alla carrozza, le porte che penetrano le pareti, una divisa nera a riempire il mio orizzonte. 

Lento, il controllore si avvicina.

Ho chiamato l’ambulanza, mi hanno detto che era inutile, che sono in pochi, ormai, hanno scritto al Comune, sono andati in televisione, però nessuno assume, nessuno paga, e non si spostano più per i morti, nemmeno se sono forse-morti, non hanno tempo per chi se ne va, nemmeno per chi è indeciso tra il qui e il là; avvisi le pompe funebre, mi hanno detto, le nostre condoglianze, signora, a lei e a suo marito.

Dal profondo del marito si ode un gorgoglio, un misto gas e non so cos’altro, e subito dopo uno sfiato lungo, lento, si fa largo tra i tessuti del pantalone blu cerimonia. 

Attendiamo in silenzio, lei forse diventa rossa in viso, anche se non ne sono certo, perché nella carrozza, all’improvviso, si fa buio. 

Quando usciamo dalla galleria, prosegue come niente fosse. 

Alle pompe funebri sono stati gentili, pensi, ci sono sempre, anche di notte, solo che si spostano per una cifra che solo a sentirla per poco non si infartua il nostro conto in banca, e un assegno post-datato, no, nemmeno a parlarne; ci occupiamo di post-mortem, signora cara, capisce che di post ne abbiamo abbastanza; allora mi hanno suggerito di portare mio marito a un cimitero sulla pineta, vicino a un albergo, che lì me lo seppelliscono con un amen e cento euro, solo le spese di trasporto sono a mio carico, così,

la carrozza ha un sussulto, l’uomo si affloscia sul grembo della donna, che lo fissa negli occhi con aria di rimprovero, ma poi lascia fare e anch’io, anch’io preferisco ignorare il rivolo che cola dall’angolo della bocca, denso, marrone fango, fino a smarrirsi sulla gonna nera della moglie; 

così eccoci qui, giovanotto, mi sa che siamo arrivati al ponte sulla pineta. 

Biglietti, prego, dice il controllore. 

Io ho già gli occhi chiusi, fingo di essere morto, chissà se passa oltre. Sono tempi di crisi, mi dico, bisogna arrangiarsi. 

[da "Sotto la terra qualcosa campa" di Giovanni Sicuranza]

[immagine: "Il treno delle castagne", Silvano Drei;  http://www.silvanodrei.it]

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