Underground
Giovanni Sicuranza
Il mio palazzo è un parallelepipido cotto al sangue. Mattoni così rossi che si mimetizzano nei tramonti.
Il mio palazzo ha ventuno condomini.
Sette famiglie di sconosciuti.
Quando si incrociano grugniscono, corrono, brontolano se l'ascensore è occupato e lasciano le porte aperte il più possibile per ritardarne la chiamata.
Io sono rassegnato, faccio le scale fino all'ultimo piano, silenzioso, a testa bassa.
Mentre torno dal lavoro, e penso al mio palazzo, mi fermo dalla fioraia.
Lei è sempre gentile. Mi informa della sua artrosi e se spendo più del solito arriva a parlarmi del governo, che "non ascolta mai e mai i bisogni della gente".
Non chiede il mio nome, o come sto, credo perché mi limito a comprare piccoli mazzi di fiori.
Arrivato al palazzo, dove il citofono ha cognomi sbiaditi come nebbia, lascio sette mazzi di crisantemi.
E quando entro, ogni volta, mi dico che sono fortunato, che è un bene che la fioraia non voglia sapere come mi chiamo.
Perché mica lo ricordo più.
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