Tenia ridens – Giovanni Sicuranza
La tenia aveva vissuto con Carlo da prima del suo esistere, ne aveva condivo l’embriogenesi, cellula dopo cellula, percorrendo per un tratto le stesse tappe dell’evoluzione dal protomammifero alla specie umana.
Carlo era alto 48 centimetri quando aveva urlato per la prima volta al mondo, la tenia, in un sussulto empatico, si era snodata per tre metri.
Crebbero insieme, floridi e in reciproco accordo, la tenia e l’intestino del piccolo uomo già intimi e bisognosi di affetto.
Tuttavia era un idillio destinato a finire presto e, nel solstizio d’estate prima dell’arrivo del nuovo virus, Carlo conobbe la Strega.
Accadde in una sera di quelle che non vogliono storie, che non cercano umani, una sera in cui solo la figlia dello stalliere e della levatrice si affacciava dalla fessura in mansarda e osservava il nero del bosco con occhi di fuoco.
Carlo ne era innamorato, certo, sognava di raccogliere funghi con lei tra le foglie dei castagni, però mai le aveva parlato, nemmeno aveva cercato di sfiorarla, perché tutti i suoi teneri sogni terminavano nell’urlo di una valanga che dal monte taceva solo dopo avere seppellito il paese.
Lui, la putina figlia dello stalliere e della levatrice, Bosco Magassa, tutti sommersi in una frana, una frana nera di merda nera.
Questi sono sogni da nascondere al mondo, da costruirci un muro intorno e sperare che non escano mai dal buio dei segreti.
Così Carlo quella sera ignorante uscì nel bosco, alla ricerca solitaria delle muffe della terra, con gli occhi fragili puntati sulla cima confusa del monte e il cuore stretto da brividi oscuri.
Non trovò funghi, non trovò valanghe fecali; improvvisa, Carlo vide la Strega.
Non fuggire, non ti mangio.
Lui sentì una morsa sorda lunga tutto l’intestino.
Non sei buono, piccino, mi dispiace, hai già chi ti sta divorando.
Grazie, signora.
Lei allargò le labbra viola e mostrò la caverna senza denti. Forse era una mosca, forse un ragno, zampe veloci uscirono dalla bocca e caddero tra le foglie.
Carlo le udì gemere, lievi.
Sei un cucciolo di buone maniere e il tuo verme sarà il mio serpente.
Non ho vermi, signora, scusi, mi dispiace.
Sì, è grasso, uhmmm, lo sento, ha tanta voglia di taaanto cibo.
Non mostrarle che hai paura, non mostrale che hai paura, ascolta la nonna, se vedi la strega rispondi educato e non farti mai, mai mi raccomando mai, la pipì addosso.
Non è piscio, cucciolo, tesoro, è la tua cacca molle, ascoltala, è un fiume inenarrabile, è la parola del verme, fertile per il mio bosco sacrificale.
La vergogna lo aggredì improvvisa, totale, e fu così invadente da fargli dimenticare la strega.
Le sue piccole mani corsero al sedere e lì si unirono a coppa, in preghiera, poi Carlo, tutto, dall’esterno all’interno del corpo, crollò tra i rami secchi dei castagni, sepolto da una valanga di lacrime.
All’alba lo trovarono bianco come il bucaneve d’inverno, freddo come il fiume del monte, rannicchiato sul ventre suo, i pantaloni annientati all’altezza del sedere.
Non riconobbero subito il corpo, perché era diventato piccino piccino e sembrava pesare meno di una foglia di bosco.
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