Donna mia – Giovanni Sicuranza
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Lord Friedrich Leighton, The painter’s Honeymoon, 1864
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A volte, quando il sole si sbriciola nel buio, io dimentico il suo nome.
Lei era la mia prima donna, l’ho conosciuta non so quanti anni prima di questo imbrunire.
Ecco, ora che ci penso ho lasciato indietro anche il suo viso.
E l'unica cosa che ricordo è come rideva.
Rideva come un cucciolo, insomma, non c’era traccia di raziocinio nel suo ridere e questo era lo splendido, tanto da avere la forza di una memoria eterna.
Lei è stata la prima che mi ha fatto pensare alla vecchiaia.
L'amore è anche questo, no?, quando la guardi e pensi che sarete vecchi insieme e, anche se sei appena un ragazzo, all’improvviso invecchiare diventa una previsione concreta e bella.
La mia donna è morta durante questi sogni,
è morta che rideva.
Eravamo in un locale ormai chiuso, a pranzo con amici, qualcuno le ha detto una frase idiota e lei ha iniziato a ridere, con tutta la carne di pollo pronta a entrarle nello stomaco e che invece si è fermata in gola e così è rimasta, a serrare ogni spazio, indifferente ai colpi di tosse, alla manovra di Heimlich, all’intervento dei paramedici.
La sua ultima risata non è stata per una mia battuta, ho suggerito alla giornalista che mi intervistava all’uscita dalla camera ardente.
Lei ha
risposto qualcosa e io ho visto una lacrima nel suo occhio, era il sinistro, lo
ricordo ancora; l’ho seguita mentre usciva dall’acquarello grigio dell’iride e se
ne andava silenziosa verso le labbra.
Lei
non ha tentato di interromperla, non l’ha leccata, e la lacrima si è adagiata
su quelle labbra come un rosario delicato.
La giornalista
è stata la mia seconda donna.
Ci
vedevamo poco, già il mese dopo l’avevano trasferita dalla cronaca locale a un’inchiesta
sulla corruzione dell’amministrazione; era contenta, era orgogliosa, ed era
anche incazzata e nervosa.
Io
non capivo bene, a me l’amministrazione piaceva, ma non importava; stare
insieme ci faceva morire.
Di passione,
di sesso.
Di alchimie
come la lotta per i diritti sociali e un bambino nostro.
L’hanno
trovata dopo nove giorni dalla scomparsa, a due città di distanza, in un
fagotto lacero e nero, e solo perché chi l’ha uccisa non l’ha zavorrata bene e
non ha tenuto conto delle correnti del fiume d’inverno.
Un
lavoro da dilettanti, mi ha spiegato la poliziotta, e intanto che scriveva alla
tastiera, rapida, e mi diceva che avrebbero affidato il caso a un certo Massimo
Riserbo, commissario noto in ogni ambiente noir, incrociava le caviglie sotto
la sedia, si inclinava verso lo schermo del PC, e io mi perdevo nella lettura delle
“O” del suo fondo schiena.
La
poliziotta è stata la mia terza donna.
All’epoca
avevo il mio primo lavoro importante, mi occupavo di soluzioni radicali per l’amministrazione,
e quindi potevamo permetterci una casa nostra. Il mutuo non sarebbe stato un
problema, la città mi avrebbe garantito, però fu per questo particolare che lei
divenne diffidente, distante.
Una
notte, dopo avere fatto sesso alla cavallina, disse che sapeva tutto, che l’amore
tra noi non sarebbe stato un ostacolo alla giustizia. Piangeva come la mia
seconda ragazza e anche rideva, forse perché nervosa, ma in un modo che mi ricordava
la mia prima ragazza.
Ecco
perché ti dico che quella notte ho ucciso tutte le mie donne.
Santo
cielo, sparare a lei è stato come perdere di nuovo anche le altre.
Adesso
però voglio cambiare, per questo ti ho cercata proprio tra questi silenzi, tra queste eterne rassicurazioni.
Pensa, nemmeno ho letto il tuo
epitaffio, per amarti mi basta la foto del tuo sorriso.
Tu
sei la donna mia e con te io invecchierò.
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