L’attesa (Come on, Die young) –
da “Sotto la terra qualcosa campa”
–
Giovanni Sicuranza
Il
cassetto scricchiola, sbanda da un lato, si inclina verso il basso, sbanda dall’altro.
Le tue
mani lo confortano.
Ancora
poco, forza, esci ancora poco.
La carta
c’è; piegata in due lembi, racchiude un anno di vita della strega, quando era bambina
e aveva un nome.
Si
chiamava storia, geografia, scienze, matematica, la media di otto, tutta la sua
classe terza C in questa pagella dallo sfondo grigio cenere.
Sì, cadono
momenti così, ti affondano dentro e sulle ossa scrivono frasi come “gli si
stringeva il cuore”.
Quante
volte l’hai letta, “gli si stringeva il cuore mentre voltava le spalle al
tramonto”, quante volte l’hai citata nei tuoi racconti di paura, “gli si
stringeva il cuore, sempre più, passo dopo passo verso la tomba”; un gioco
facile, suspance ed empatia in un’espressione senza affanni ed ecco che il
lettore è costretto all’angolo, incapace di fuggire dalla storia.
Sfiati,
ti lasci andare dentro la sedia di vimini, dentro questa camera che è silenzio,
penombre di cose rosa e soffici, di pastelli lievi e secchi; qui chiuso, adesso,
il cuore soffoca.
Tua figlia
era una bambina che sentiva i colori, la luce, che spezzava il buio della vita
con il canto.
Una piccola
Biancaneve era niente al confronto della sua gioia.
E c’era
anche la strega, non cattiva, non buona, solo come la tradizione del paese la
vuole, e questa strega aveva preso tua figlia con se e l’aveva cresciuta nel
pianto della morte.
Avvolta
nel bozzolo della tradizione di Nostra Signora della Fossa, anno passa anno tua
figlia si era fatta crisalide.
Un
giorno, conosciuto Leopoldo, si era trasformata in donna.
Prima
dell’amore era una bambina e questo cartoncino esumato dal cassetto della sua scrivania
ricorda bene quanto era brava a scuola.
Guardi
in fondo, la pagella è appena ripiegata verso l’interno, un angolo che potrebbe
essere l’orecchio di un cane o un lembo di pelle aperto dal coltello.
Dopo
“condotta e religione”, unite in un modo che a te sembra un contrasto, come
scrivere una ricetta e terminare con “zucchero e sale”, c’è un’ultima voce.
Rimani
lì sopra con gli occhi, i ricordi che si aprono a ventaglio nella brezza della
sera.
Una
volta mi sgridavi perché lasciavo la finestra aperta alla notte.
È un
suono che ti sorprende alle spalle, che ti coglie in questa indifesa intimità. Sorridi.
È la
voce di tua figlia.
Sì,
tesoro, ricordo; e già allora non sapevo se eri tu a temere la notte o la notte
a temere la strega; questo le dici e non ti volti.
Nostra
Signora della Fossa invece si avvicina, senti il pavimento squittire sopra i
suoi passi neri.
Ero
una bambina, padre, non confonderti, ancora non appartenevo alla strega di
Lavrange.
Dici?
Allora leggi qua, guarda.
Non ti
volti nemmeno adesso che te la senti addosso, alzi la pagella sopra la testa e
la senti vibrare al respiro di lei.
Non comprendo.
L’ultima
voce, in fondo, dopo condotta e religione. Facevi la terza elementare e avevi
già dieci in cucina.
Ah, cucina,
l’orgoglio di Lavrange.
Fai
sì con la testa, trovi scontata la sua ironia, anche se ti fa tornare al
presente.
La
finestra mostra l’orizzonte deformato dalle ombre del cimitero e dall’albergo
di Leopoldo.
Solo
nel nostro paese abbiamo questa voce in pagella. Tu eri la più brava.
Oh,
Leopoldo era affascinato da questa mia qualità padre, tanto affascinato che mi
ha abbondonata per sposare la donna della tua libidine. Quanto aveva in cucina?
Chi,
Eleonora?
Silenzio.
Vorrei
voltarmi, figlia, guardarti ancora una volta prima di andare.
Non
farlo.
Nulla
si muove, nemmeno lei, lo comprendi da come tutto, intorno, la stanza, l’aria, ha
il tepore della morte.
Ieri
sera Leopoldo ha dato una cena, ci sono stato.
Lo
so.
Gli
ho scritto stamane una mail di ringraziamento.
Allora
la cucina era ottima.
Ottima.
Vuoi leggere la mail? L’ho stampata.
Perché?
Una cosa
nera si allunga sulla scrivania a prendere il foglio. Potrebbe essere la mano
di tua figlia.
Comincio
ad avere problemi a stare troppo attaccato allo schermo, sai, se posso stampo
tutto quello che creo.
È per
questo che andrai al matrimonio di Leopoldo, padre? Per narrare tutte le storie
che hai creato?
Leggi
la mail, figlia. So quanto della tua arte ha appreso il mio amico.
***
Caro
Leopoldo,
come
puoi immaginare, me ne sto a scrivere il nuovo romanzo sulle musiche di
Lavrange e della nostra strega, e a volte la trama ha un vuoto d'aria; nessun
problema, anzi, è un bene, perché approfitto della mancanza di ossigeno
narrativo dei miei personaggi, della loro mutacica attesa, per ringraziarti.
Sono
ancora estasiato per la cena che hai offerto a noi ospiti negli echi
dell'Albergo dei Tre Atti.
Già
per la vista sulla vallata del cimitero, la tua struttura merita il massimo
voto su Trip Advisor e, stanne certo, così come adesso mi permetto di
condividere la mail sul mio profilo, faccio sempre quanto possibile alle mie
limitate capacità espressive per pubblicizzarla in ogni dove e l'oltre dove del
web.
Sai
che riesco meglio in altre forme d'arte che non con le parole, ma non posso
dare il buio a questa notte se prima non ho placato il mio entusiasmo, anzi, la
mia eccitazione.
Hai
fatto rivivere l'arredamento degli anni in cui Lavrange era un paese pieno di
storie, gli odori del legno, della lana, delle lampade ad olio, tutti insieme
armonizzati fino a diventare un linguaggio di cose sepolte e piene di memoria.
Le
tavolate su cui i flute prendevano forma, prima stelo e poi corolla sopra i
sudari delle lapidi, e i colori, il blu e il nero e il verde dei cocktail, ah,
Leopoldo, era proprio come respirare tra i fuochi fatui nell'imbrunire di
questi giorni gravidi d'afa, quando i gas cercano refrigerio dalle tombe.
Grazie,
davvero, per i sapori genuini della nostra tradizione, per la succulenta
apertura con i vermi albini e le larve di mosca, cibo biologico dalla nostra
terra cimiteriale.
E
poi.
Non
sfilate di carrelli con cervi, cinghiali, non la solita natura morta della
cacciagione smembrata.
Tu
sei un genio, un genio.
Nessuno
meglio di te esuma i morti e li rinnova alla nostra vita, in posa, seduti tra
le portate, chini ai tavoli.
Nostro
cibo e attesa.
Leopoldo,
mio ineguagliabile amico, solo tu sai fare rivivere i sapori veri, antichi,
della terra.
Con
affetto, tuo
Gio_S
***
Il
sudore scende la fronte, ruga dopo ruga, e si ferma a bruciare negli occhi.
Ascario
smette il badile, passa una mano ad asciugarsi il lavoro dal volto, e si
accorge del prete.
È da
ore che ti guardo, uomo.
Uh, deve
essere ben comoda la lapide dove appoggi le chiappe.
Era della
madre di Eleonora, una donna quieta.
Ne riconosci
la morbidezza?
Il
prete ride, non abbastanza da coinvolgere Ascario, non tanto a lungo da coprire
il lamento del bosco.
Non è
il vento, dice Ascario,
il
prete ride,
Forse
è il pianto di Nostra Signora della Fossa, dice Ascario.
Don
Lario fa un verso curioso, come uno sforzo d’agonia, un risucchio a riprendersi
la risata, a trattenerla in fondo, gli occhi che diventano pesci palla, le
guance che si afflosciano sui profili del teschio.
Ascario
guarda in alto, dove le nuvole hanno cessato ogni movimento, anche se il vento
continua a scorrere.
Sì,
deve essere la strega.
Dici
che dovremmo andarcene?
Perché?
Tanto al matrimo saremo tutti morti, non le interessa farci male, adesso.
Il
prete tenta di alzarsi dalla lapide, barcolla, frulla le braccia come ali nere
di corvo, ritorna con le terga al marmo. I fiori morti nel vaso perdono gli
ultimi petali, che vanno alla ghiaia come pozzanghere rosse e gialle.
Ascario
ci entra dentro con gli occhi.
Sai
perché piange?
Cazzo,
mormora Don Lario, dovremmo smetterla con questi cadaveri, sono troppi, troppi
dico, basta cibarsene.
Ah,
il fiero pasto, mio buon prete, è tradizione. Pensa a tutte le ostie che hai arricchito
con la polvere delle ossa. Tutte le santelle di Lavrange, i teschi esposti ai
crocevia, sono il nostro menù. I nostri avi nei nostri corpi.
E’
peccato.
Lo dici
ogni volta che te la fai sotto. Pensa a
tutti i trattati medievali che ci ricordano che la carne umana, per affinità, è
per noi la migliore. Lo scrivevano il pio Fioravanti, ah, e nel seicento
persino il medico Lancilloti, cioè, intendo nel milleseicento.
E la
carne si fece Verbo, d’accordo, lascia perdere le fonti storiche, voglio solo
dire che forse la strega ha saputo della nostra cena per festeggiare il
matrimonio di Eleonora e Leopoldo e adesso è arrabbiata.
Ascario
tace. Porta l’indice della mano sinistra sulla punta del naso, e muove l’indice
della destra sul profilo del bosco, poi lungo il tetto in lontananza dell’albergo
dei Tre Atti.
Sopra
i due uomini, intorno, dentro il cimitero, l’aria è densa del lamento della
strega.
Lei non
vuole il matrimonio, sussulta il prete, che di nuovo perde l’equilibrio, guaisce
e termina supino lungo la lapide.
Certo
che no, idiota. Lo sappiamo tutti, anche Leopoldo. Per questo ha scelto suo
padre come mezzo per ucciderci.
Dalla
lapide proviene un rantolo.
Cosa
dici, prete.
Ascario,
mi manca l’aria, aiuto.
Ti
chiedi come può un uomo ucciderci narrando racconti al matrimonio?
Un
altro rantolo.
Il
pianto della strega riempie il petto di Ascario, lui lo sente come gli scende
dentro, sangue e nerbo per i suoi vecchi tessuti.
Nulla
è più intenso del coro funebre delle donne, gli uomini lo hanno sempre saputo;
per questo le temono, perché aprono la porta ai demoni e agli spiriti, perché
hanno il potere di diventare streghe e trasformare il canto nel pianto della
morte.
Non
dovresti chiedermelo proprio tu, prete, che professi una narrazione per cui la
gente ha compiuto stragi.
Ascario,
un
rantolo, forse un pigolio,
No, torna
qui, dove te ne vai, sto male, Ascario, ti prego, forse è un infarto.
Vado
a sedermi sulla collina, prete, ecco cosa faccio; accendo la pipa, sarebbe
anche ora dopo un giorno tra la carne frollata dei nostri morti, e mi ascolto il
canto della strega, tutto. Il dipinto della notte e la colonna sonora di Nostra
Signora della Fossa, credi davvero che voglia perdermeli?
Vecchio
imbecille, inutile becchino, no, senti, senti, torna qui.
Ascario
scavalca il badile con il manico sepolto nella terra negra del cimitero.
Si
ferma un istante, appena un istante.
Torno
a prenderti domani, prete.
E non
si volta.
[segue]
[immagine:
Richard Oelze " L' attesa " 1935/36]
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