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Del Sol Invictus (due racconti)


Il Villaggio di Natale 
da "Sotto la terra qualcosa campa"; Giovanni Sicuranza

Chiudi gli occhi, respira piano, si dice, profondo, dai dintorni del diaframma.
L’uomo è sudato, è passi mangiati su passi, è caduta tra le paludi di fango.
Ora il Villaggio di Natale lo accoglie, luminoso, caldo. Manca mezz’ora alla chiusura, ma lui sa di essere ancora in tempo.
Occhi di sconosciuti piovono sul soprabito, scivolano fino ai pantaloni, diventano chiazze di disgusto sulle macchie di umidità e terriccio.
Non vi siete accorti che il cielo vomita?, urla l’uomo di fango, muto.
Il Villaggio è un cappello di festività sopra la collina. Ogni anno è in anticipo sui tempi; già a metà novembre dalla collina, lungo il sentiero scendono le odi al Natale, attraversano il cimitero, e se ne vanno in giro per tutto il paese di Lavrange. 
Le auto parcheggiate sull’erba delimitano il sentiero di ghiaia, dalla strada principale fino all’ingresso con il Grande Babbo Natale, che accoglie i bambini con un “Oh-oh-oh!” e un piccolo inchino a duecentoventi volt.
La gente diventa folla dal primo giorno. Famiglie: lui, lei, pargoli; lei e pargoli, soprattutto. Lei e basta, a volte.
Ogni anni l’uomo coperto di fango cerca una “lei e basta”. 
Sa dove trovarla, non si preoccupa dei primi annunci che invitano a raggiungere le casse.
L’uomo di fango percorre i corridoi, veloce, i capelli bianchi che diventano blu e gialli e rossi e blu, lungo le luci del soffitto.
L’ansia, quest’ansia di incontrare lei, è come una marea che cresce e affoga il tempo. 
La stanza gialla è dedicata ai feticci dorati del Natale.
Mani nervose si allungano, si ritraggono, occhi affascinati cedono sui nastri, sulle palle, sulle riproduzioni di umanità tra plastica e terracotta. Un pino giallo si allunga dal centro del pavimento fino a pochi centimetri dal soffitto e più sale, più si piega su se stesso, dispnoico. Intorno, bambini formano una girandola festosa.
- Fermati – risate - Ti prendo.
L’uomo affloscia lo sguardo sul livore del suolo e prosegue.
“Ti prendo”, le disse un pomeriggio di cinque anni prima, “Sei mia”.
Da allora non ha smesso di prenderla. Anno dopo anno, in questo stesso pomeriggio di dicembre.
Nel Villaggio Natalizio.
La stanza blu è il cielo della notte.
Occhi paffuti, occhi rugosi si alzano e volteggiano lungo le stelle di carta, tra fili d’argento. Al centro, un pino laccato di blu preme sul soffitto, sembra insistere nel tentativo di penetrarlo. Bambini intorno, osservano confusi.
- Non esiste un albero di questo colore, vero, mamma?
L’uomo sospira, passa oltre, i passi che lasciano memoria di fango.
“Non esiste un altro momento così, vero?”, le chiese, un pomeriggio di cinque anni prima, “Siamo unici”.
La stanza rossa. 
Su questa soglia l’uomo si ferma.
Suda. Le labbra scompaiono nella morsa dei denti.
Chiudi gli occhi, calmati.
Avverte la folla aprirsi e ricompattarsi, fendere il masso della sua ansia. Sente qualcuno brontolare e non si muove.
Aspetta.
Lei è lì, come ogni anno, al centro della sala, circondata da clonazioni di Babbo Natale e renne.
Deve rilassarsi in fretta. Deve essere pronto.
Una donna lo urta.
- Che schifo! – sbava - Si lavi, no?
L’uomo apre gli occhi, freme di attesa.
Davanti a lui, inaspettato, un gigante rosso lo fissa.
***
Babbo Natale lo ha notato dall’ingresso.
Particolari insoliti: uomo solo, uomo sporco di fango, uomo con fronte sudata nei quattro gradi del tardo pomeriggio.
Troppe incongruenze in una sola persona, ha deciso. E lo ha seguito.
Più ha continuato sulla sua scia, più si è convinto che lo strampalato visitatore è qui per un motivo che nulla c’entra con il Villaggio di Natale. Così rapido il passo, così fisso in avanti il capo.
Quando si è fermato al limite della stanza rossa, lo ha superato, si è girato a pochi passi da lui. 
Ha sentito la donna insultarlo e ha fatto no con la testa, uno sguardo nero sotto il berretto rosso.
Lei gli ha sorriso, incerta, come una bambina scoperta a infrangere un veto e - ma che bel Babbo Natale - ha biascicato, poi si è affrettata a tornare folla tra la folla.
Babbo Natale si è seduto su una panchina rossa come vino versato, tra un lampione verde oliva e un abete verde muffa. L’odore delle cose finte lo ha invaso con arroganza. 
Occhi nelle palpebre chiuse dell’uomo di fango, ha continuato ad attendere, in silenzio.
***
- Posso – lui deglutisce, privo di saliva – Signor Babbo Natale, posso esserle utile?
Sotto il peso di Babbo Natale, la panchina ha perso la forma rettilinea e sembra un sorriso beffardo con rossetto verde.
Ora si spezza, pensa l’uomo di fango, mentre osserva le estremità che tendono ad alzarsi.
Il gigante annuisce, quindi batte la mano al suo fianco.
L’uomo di fango dice no, rapido, con la testa, il gigante risponde sì, lento, con il sorriso, solo che non è un sorriso rassicurante, ma una sciabola di denti, sfoderata dalle labbra.
Un istante dopo, l’uomo è al suo fianco. 
Babbo Natale si sporge in avanti, le mani unite, come in preghiera, lo sguardo sul pavimento. Scarpe, stivali, persino un paio di mocassini, scivolano nel suo campo visivo.
La panchina ha un gemito, le estremità sobbalzano nell’aria.
L’uomo di fango trattiene il fiato.
- Non farlo – dice Babbo Natale. E’ solo un sussurro, eppure profondo, eppure pieno, così pieno da diventare un coro buio nelle orecchie dell’uomo.
- Cosa?
- Quello che sei venuto a fare – la voce ha il tono del temporale che lacera l’aria.
- Lei chi è? – l’uomo fa per chinarsi al suo livello, ma è subito trattenuto dalla mano della prudenza – Non è Babbo Natale, questo è chiaro.
Il gigante rosso non si muove, non parla.
- Babbo Natale non esiste – insiste lui e non si accorge che alla fine della frase rimane l’ombra di un punto interrogativo.
- Non farlo – lo avvolge l’ondata nera.
- Chi sei? – l’uomo si scosta appena, la paura che diventa gelo sulle mani - Babbo Natale è buono – si sorprende a puntualizzare.   
Il gigante rosso annuisce, piano.
L’uomo di fango ha l’impressione che, dentro, stia ridendo.
Suggestione, pensa, è la mia ansia. Devo fare in fretta.
- Bisogna che vada, mi scusi.
- Non farlo – pausa - Non te lo chiedo più – silenzio, immobile.
L’uomo di fango si affloscia.
- Tra poco il Villaggio chiude – trema nella voce, nelle mani, dentro il cuore.
Babbo Natale non reagisce.
- Non sa nemmeno cosa sono venuto a fare! –l’uomo batte un piede. E non osa alzarsi.
- E’ importante?
Lui chiude di nuovo gli occhi. In quella domanda c’è uno spiraglio. Deve essere così, gli incubi durano sempre poco. Un gemito.
- Stella. Una stella rossa.
- Quella al centro, sopra l’albero, immagino - la voce di Babbo Natale è  più densa dell’aria viziata della stanza.
L’uomo di fango si volta appena, giusto per vederla. 
Sopra l’abete rosso, la stella rossa è una bandiera di sangue, priva di vento.
- Stella è stata la mia compagna. Mi ha seguito nella solitudine – lo sguardo diventa un velo di ricordi e lacrime – Aveva il pelo rosso, la stessa tonalità di quella … di quella …
- Stella era il tuo cane?
- No, no. Era la mia compagna, più di un cane, più di una donna.
L’uomo di fango torna con gli occhi su Babbo Natale.  
- Più di una figlia – mormora alla montagna immobile – Ci siamo incontrati al canile. Era stata abbandonata da qualcuno e la chiamavano “Vermiglia”, per via del pelo. Solo che a me non piaceva, insomma.
Babbo Natale annuisce, ancora. Piano, ancora.
- Mi sembrava di cattivo augurio, ecco, so che sembra stupido, ma, vede, l’assonanza del nome con i vermi, no, allora l’ho chiamata Stella, senza un perché, ecco. A lei è piaciuto, ecco.
- Ecco – ripete Babbo Natale, atono – E ora che mi hai cercato di commuovermi, dimmi cosa fai qui.
L’uomo socchiude le palpebre.
- Non osi prendermi in giro, lei non deve - la voce si spezza, perché vede il volto del gigante erto sul suo, enorme come una luna nel giorno dei morti.
- Ho seppellito Stella qui, cioè – una mano si allunga verso il centro della stanza, ha cinque dite sottili come rami secchi – intendo che se ne sta lì, proprio lì, ecco.
- Sotto l’albero? – per la prima volta Babbo Natale sembra colto di sorpresa, muove la testa verso la direzione indicata in un sussulto, ha la fronte corrugata.
La barba non è finta, realizza l’uomo di fango lungo un brivido che gli apre la schiena, oddio, la barba è sua, è bianca e lunga e con i peli che escono dalla pelle.
- Come ti chiami, uomo? – l’alito del gigante sa di terra umida.
L’uomo si sente precipitare nell’assurdo.
- Adamo, signore, mi chiamo Adamo – mormora, mentre l’urgenza del suo compito perde consistenza, fino a diventare fantasma tra le mura della paura.
- Adamo– ripete Babbo Natale, lento, come ad assaporare il nome, come a masticarlo.
Gli occhi sono pozzi neri che danno vertigini.
- Ho seppellito Stella l’anno prima che costruissero questo Villaggio. Nemmeno lo sapevo, giuro. Forse il terreno era già recintato, ma ero troppo sconvolto per notarlo. Signore, la prego, è morta proprio oggi.
Babbo Natale tira su con il naso. Adamo ha la sensazione di essere risucchiato nelle narici, perde il fiato, l’equilibrio, è un attimo.
- Fammi indovinare, uomo. Ogni anno, nel giorno della morte del tuo cane, vieni qui, proprio qui.
- Sì, signore, mi arrampico sulla collina e mi fermo al centro di questa stanza
- Perché sulla tomba del tuo cane hanno messo questo albero.
- Con una stella rossa, sì – annuisce l’uomo, piegato su se stesso.
- Sei qui per prenderti la stella, dunque.
Sì, accenna lui, la testa afflosciata sul mento.
- Sei il ladro della stella rossa – una pausa, breve, piena di musica natalizia, di brusii di bambini - Ti ho trovato finalmente.
Non sono un ladro, ribatte l’uomo di fango, ma senza voce. Il corpo, i sensi si stanno rifugiando in una fossa della coscienza. 
- Ma tu, invece, chi sei? – geme, in un ultimo tentativo di razionalità.
- Natale, detto il Rosso; sai, uomo, ho fatto le barricate contro gli sbirri, nel sessantotto. Buffo, no? Dico, adesso sono l’agente di sorveglianza del villaggio.
- Cosa? – Adamo scatta all’insù, apre e chiude gli occhi, rapido – Cosa? – e si volta verso il colosso vestito da Babbo Natale.
Il Rosso corruga la fronte.
- Beh, soffro di gigantismo, ma per questi lavoretti è un vantaggio - I suoi occhi sono ancora scuri e grandi, ma non celano più pozzi. Il suo alito ora sa di vino, non di cantine oscure. 
- Sei, cioè, allora non sei.
- Ehi – una mano enorme atterra su una spalla e lo blocca. Basta il tocco, perché non c’è nessuna forza minacciosa nella presa – Cosa ti prende, amico?
Natale il Rosso si guarda intorno, poi torna ad Adamo e apre un sorriso. Niente sciabole dentate, solo labbra distese.
- Dai, andiamo.
Adamo non riesce a muoversi.
- Mi denuncia?
- Perché in questi anni hai rubato la stella rossa? – Natale si passa una mano tra i lunghi peli bianchi sul mento, quindi annuisce – Sì, mi hanno assunto per questo.
- Solo per questo?
- Solo per questo.
- Capisco.
L’uomo sporco di fango si alza, trenta centimetri più in basso dell’uomo vestito di rosso.
- Andiamo – ripete Natale, dandogli le spalle. E inizia a muoversi, albero gigante controcorrente nel fiume dei visitatori. 
Adamo barcolla, si volta verso il centro della stanza.
La stella, in cima all’albero, sembra splendore di sangue.
- Ehi – tuona Natale alle sue spalle – Ho detto di muoverti.
- Non posso, io - l’uomo di fango scuote la testa – Là sotto c’è la mia compagna di sempre.
- Appunto, andiamo.
- Eh? – Adamo si gira in fretta, per poco non perde l’equilibrio.
Natale il Rosso è un uomo grande che si stringe nelle spalle. È un uomo con gli occhi enormi di chi conosce la solitudine.
- Usciamo da qui.
- Non mi denunci?
- Per favore, dai – un altro sorriso gli gonfia il volto – Dobbiamo muoverci, passare dal magazzino, prendere un qualsiasi addobbo natalizio – le mani si arrampicano nell’aria, verso al cima dell’albero – portarlo qui e metterlo al posto della vostra stella.
- La nostra stella?
Natale il Rosso non aggiunge altro. Riprende il passo, deciso e inizia a fischiare le prime note di “Pianto di Natale”.
Adamo ciondola su un piede, poi sull’altro, mentre assorbe il significato di quanto sta accadendo. 
L’attimo dopo è sulla scia del Rosso, sul suo stesso respiro, con il suo stesso canto. 
Le musiche del villaggio natalizio scendono dalla collina al paese di Lavrange, attraversano campi, massi, saltano nelle fosse, riempiono le lapidi del cimitero. 
A volte, capita, qualche nota si attarda tra le memorie dei defunti.



Pianto di Natale
da “Storie da Città di Solitudine e dal Km 76”; Giovanni Sicuranza; Youcanprint – Boré Editore; 2010 

Il pianto dall’altra parte della porta.
Continuo, senza pietà. Così intenso da riempire tutto il palazzo.
La chiave che annaspa tra le mani per tuffarsi nella ferita della serratura. 
Uno scatto, il pianto, un altro scatto, il pianto. 
E finalmente la donna si tuffa all’interno del corridoio, le borse della spesa che precipitano al suolo con tonfi di macigni.
- Arrivo – urla – ecco – continua, con l’intenzione di dire “eccomi”, se il fiato non fosse già diventato agonia nell’affannosa corsa sulle scale dal portone al secondo piano.
Romilde è il nome di una fiaba. Così aveva deciso sua madre quando lei era nata, fragile e inconsapevole del mondo.
Ventisei anni dopo, Romilde è capelli arruffati, sudore che vela occhi, moccio che serpeggia denso da una narice. É continua corsa nella quotidianità. Il lavoro, la casa. 
Nessun segreto su cui sognare, nessuno specchio su cui soffermarsi per un cenno di trucco. Nessun lieto fine da quando l’uomo con cui ha convissuto l’ha abbandonata per un’altra, salutandola con una bestemmia, un mutuo da pagare per i prossimi secoli, un abito da sposa impiccato nel buio dell’armadio. 
E il piccolo.
Il piccolo che ora piange e che lei tenta di consolare gorgogliando litanie spezzate dal fiatone.
- La mamma è arrivata, la mamma la mamma – cantilena Romilde, cercando di pulirsi il sudore con un mano e con l’altra di solleticare il viso paffuto di Mattia. E forse è proprio per questo che il bambino scalcia con più forza nel lettino e intona una versione di pianto più grintosa di prima.
La principessa Romilde si accascia nel mantello di un impermeabile chiazzato di grasso e sudore, mentre le scarpe da saldi al mercato sgusciano dai piedi gonfi. Accanto al lettino, piange anche lei, impotente, nemmeno capace di sovrastare il tono del figlio.
Dopo pochi minuti, è sdraiata al pavimento, il corpo vibrante in un sonoro russare, che è riuscito ad incuriosire Mattia. E a farlo tacere.
***
Le feste sono ironia che si rinnova sul fallimento di Romilde. Il Natale che striscia dapprima nella pubblicità, poi si colora nelle vetrine dei negozi e quindi irrompe nella decorazione della città, nei palazzi.
Romilde si è alzata alle cinque, come tutte le mattine. I piedi nudi sul granito in glaciazione, scosta la tendina della finestra. Piano, per non svegliare anche Mattia, che dorme accanto a lei. D’altra parte, la casa è un cubo con una cucina, una stanza da letto a mansarda e un bagno dove può muoversi con naturalezza solo un’anoressica. Romilde è in soprappeso da quando ha partorito. 
Allora credeva ancora al suo uomo, pensa mentre osserva i lampioni che sfrigolano freddi nel buio, allora sapeva che la loro storia avrebbe avuto tutte le allegre melodie delle fiabe e una scritta scesa dal cielo.
- E vissero felici e contenti – piange sottovoce, mentre i fari ciechi delle prime auto sul viale le rimbalzano sul viso e le ricordano che tra poco comincia il turno in fabbrica.
Invece lui si è trasformato nel nulla, anzi, peggio, nell’orco cattivo. Perché se è vero che ogni mese le passa un soffio del suo stipendio, è anche vero che una volta alla settimana passa e basta. Cammina lungo il marciapiede, felicemente a braccetto dell’altra. E quando arriva all’altezza del suo appartamento, del loro appartamento, si ferma un istante, alza gli occhi sottili e stira le labbra in un sorriso. Poi, come se quel gesto ripetuto fosse la replica di un sipario, continua la passeggiata, indifferente a tutto se non alla sua nuova donna.
Romilde solleva gli occhi umidi sulle case di fronte. Tutte le luci sono spente, ancora nessuno ha iniziato la giornata, eppure è strano vedere questi nuovi Babbo Natale appesi sui balconi o sulle finestre. Sono grandi, piccoli, un esercito immobile nel gesto di penetrare nelle case. Hanno un’attesa lunga, nel giorno e nella notte, nel freddo della festa che avanza. Sono solo pupazzi, Romilde lo sa, eppure le loro ombre in scalate sulle case buie la inquieta. 
Pensa che saranno anche truccati da Babbo Natale, ma non hanno nulla di rassicurante. Allora chiude la tenda e si muove verso la cucina. Bastano pochi passi per arrivarci, ma il freddo del pavimento la scuote subito, tradendola. Inciampa nell’armadio, le ante che si aprono in un lungo cigolio di protesta e mostrano una cavità buia. 
Romilde trattiene il fiato, un po’ nel timore di svegliare il figlio, un po’ ipnotizzata dall’ombra che sguscia veloce dall’armadio. Una gonna troppo pesante per una gruccia efebica scivola al suolo in un tintinnare di lampo e bottoni di plastica.
Mattia apre gli occhi al nuovo giorno. E inizia a innalzare il pianto a tutti gli esseri viventi.
***
È sera. 
Il latte che si scalda nel pentolino. La fiamma è danza azzurra e gialla sugli occhi rossi di pianto e stanchezza di Romilde. 
La televisione è accesa su un telequiz in bianco e nero e senza voce. 
Lei vorrebbe seguire il programma, ma Mattia sta dormendo e non osa rischiare. Non dopo ore trascorse a sentirlo urlare, mentre era intenta a fare il bucato, a lavare i pavimenti, a sistemare una lampadina fulminata e la serratura arrugginita della porta. Veloce, frenetica, precisa, sotto il pianto battente del figlio nelle orecchie, nel cuore. Nella mente.
E nel frattempo ha anche avuto modo di scorgere dalla finestra l’avanzata dell’uomo, di vedere il suo ghigno verso quella che era la loro stanza d’amore, di ingoiare amaro al suo avvinghiarsi sull’altra nella ripresa della passeggiata.
I Babbo Natale appesi ai balconi hanno dato le spalle alla scena, come sempre indifferenti.
Ed ora lei sta scaldando il latte per Mattia, in ondate di sconforto. 
Romilde non è fatta per questa storia di solitudine e pianto. Romilde vuole una fiaba. Sua mamma l’ha chiamata così proprio per augurarle una vita da favola, lo ha sempre ripetuto, fino a quando un camion non l’ha sbriciolata a pochi minuti dalla nascita del figlio.
Mattia forse lo sa. Mattia che già si sveglia. E piange.
- No! – urla la donna caduta da una fiaba – No! – ripete sopra il pianto del figlio e in un balzo tenta di correre verso di lui, sentendosi piena di vuoto e sconfitte. 
Urta il pentolino e lo osserva mentre si tuffa al pavimento in un tintinnare che esplode nei pensieri. Il latte si sparge ovunque, lento e denso come sangue anemico.
- Basta! – è il grido finale di Romilde, che afferra il pentolino e corre dal figlio.
- Basta! – è il suono che ripete mentre cala la pentola con violenza sulla testa di Mattia, una volta, due, tre, e chissà quante altre, fino a quando la mano non è satura di formicolii e sangue e frustoli di cervello.
Allora si ferma, esausta, e guarda il figlio che ha cambiato volto e che ha smesso di piangere. Questa volta davvero, questa volta per sempre.
Apre e chiude le labbra, mentre schizzi di sangue le scendono sul viso e le riempiono la bocca del sapore di Mattia. Cerca di allungare le mani sul corpicino martoriato, ma le ritrae subito, inorridita.
È sconvolta, Romilde. Perché scopre che oltre l’orrore di avere massacrato suo figlio, si sente anche sollevata. 
Lo sguardo va alla finestra, come desideroso di fuggire, e si immobilizza sulle luci che filtrano dalle case circostanti, dagli addobbi natalizi lungo la strada.
Pensa Romilde, pensa, confusa, veloce, pensa con l’espressione che si trasforma piano, fino a quando dal panico non emerge un sorriso. E gli occhi scintillano di lucida gioia.
***
Il giorno dopo Natale, l’uomo passeggia come sempre lungo la via dove ha vissuto con Romilde gli anni più tristi della sua vita. 
- Idealizzava ogni cosa – ripete spesso alla sua nuova compagna – Una rompiballe fuori dalla realtà che credeva nella fiabe. Un tipetto da romanzo rosa, insomma.
Oggi l’uomo ha fretta. Lo aspetta il pranzo con i colleghi di lavoro, eppure non ha rinunciato a parcheggiare l’auto fuori mano per compiere il solito percorso in compagnia della sua donna.
- Così diamo alla mia ex un altro esempio di cosa sia la realtà – ha spiegato, incurante dello sbuffare di lei.
Quando sono arrivati sotto l’appartamento, ha come al solito sollevato la testa verso la finestra della stanza da letto. E si è messo a ridere.
- Vedi come è fuori dal mondo? – ha richiamato l’attenzione della sua compagna, il dito puntato in alto – Natale è già passato, tutti stanno togliendo gli addobbi, e lei cosa fa? Guarda, ha attaccato alla finestra uno di quei buffi Babbo Natale arrampicatori!
La compagna solleva lo sguardo controvoglia. L’idea di arrivare tardi all’appuntamento con i colleghi di lui la infastidisce, anche perché si tratta della prima occasione di incontrare il suo nuovo amante in società.
Ma quando vede il Babbo Natale appeso alla finestra, esita, perplessa.
- Però, è strano – mormora – Non ti sembra più realistico degli altri? Anche così piccino.
- Sì, dai, qui di piccino c’è solo il cervello della mia ex – sentenzia lui, già disinteressato. Con un braccio avvinghia la vita della sua donna e la trascina avanti.
Sopra di loro, una tendina si chiude. Piano.

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