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La tappezzeria [anteprima di romanzo]

"Polvere di Silenzi" non è ancora uscito in versione definitiva ed ecco già la bozza di un prossimo romanzo. Il narratore è un fedifrago!



La tappezzeria
Giovanni Sicuranza

Respiri.
La suola è usurata dalla frenesia dell’uomo. Da ore il piede striscia sul pavimento della stanza, stordito, 
avanti e indietro,  stop, indietro, stop, avanti e indietro, avanti …
L’uomo è un tormento che tenta di ricordare se è vivo. 
Lo specchio dell’armadio non gli lascia messaggi chiari, lì dentro ci sono solo i riflessi di un letto a baldacchino e di pareti incrostate, brandelli di una tappezzeria su cui spiccano ritratti di uomini e donne. 
Il balcone non si apre, e non perché sia rotta la maniglia, non perché si siano incrostati gli infissi; non si apre, perché le sue mani senza forza non riescono ad afferrare null’altro che aria. 
Aria stantia. Aria di morte.
Aria morta.
La suola aderisce malamente al suolo, finalmente ferma, inclinata verso l’interno del corpo, dove la pressione del cammino è stata maggiore. 
Non si sente più il fruscio del passo. Silenzio. 
L’uomo ha visto dov’è finito l’altro piede. 
Il colore nero brillante della scarpa risalta tra le camice bianche del cassetto semiaperto. Cioè, semiaperto lo è adesso, un attimo prima era un cassetto “tutto chiuso”.  
Lui ne è certo, anzi, è più certo dell’ambiente in cui si muove, che della sua realtà, ma non fa caso a questi particolari, quando il problema principale è capire se è morto, e, se proprio è morto, come fa ad andarsene in giro da ore, pur confinato nella stanza da letto dell’architetto Massimo Restauro.
Anche questa certezza, in effetti, è un mistero. Non ricorda di avere mai parlato con l’architetto Restauro, ma sa bene che esiste – se è vivo è da vedere – e che questa è la sua stanza da letto. 
Perché lo sa?
Per la prima volta, l’uomo solleva le mani all’altezza del viso, un gesto che lo rincuora, in quanto gli permette di scoprire che, a differenza dei piedi, almeno queste sono ancora due. 
Due lunghe mani, sottili e integre. Di un rosa troppo acceso, però, quasi rossastro, il che avvalorerebbe l’ipotesi di morte, certo, perché …
***
- Voglio portarmela a casa.
- Ma, architetto, togliere tutta questa tappezzeria ci costerà molto tempo  e a lei denaro e poi …
- Poi? Non annaspi, signor Esumato. Non mi aspetto che sia il responsabile della cappella dei Restauro a esitare su certi argomenti. 
- Architetto, questa tappezzeria è qui da decenni, vede, è consumata qui, e qui e, ah, ecco. La vede, no?
- Uh, la macchia verde, sì. Umidità.
- Umidità, dice lei? L’ha mai toccata, architetto? È in rilievo. È fredda. 
- Uno schizzo di vomito in altorilievo? Ottimo, signor Esumato. Discutile la scelta dell’artista, certo.
- Eh, lei è un furbo, finge di non capire. Queste pareti racchiudono secoli di cadaveri. Ossa marce, carne putrescente, liquidi. Liquidi che filtrano.
- Ora basta, signor Esumato! Vi pago bene per assecondare i miei desideri, non si permetta di insultare i miei antenati! Voglio che questa tappezzeria sia trasferita nelle migliori condizioni dalla cappella di famiglia alla mia stanza da letto! Ah, signor Esumato.
- Sì signore, dottore, architetto, sì.
- Al più presto.
- Sì.
- Con somma discrezione.
- Sì.
***
Ora l’uomo ricorda. 
Le mani si infiltrano nel cassetto e afferrano il piede reciso sopra la caviglia, ma gli occhi non vedono la lacerazione irregolare appena sopra la caviglia, perché la mente è uscita dalla stanza.
Ne ha visti di cadaveri, ne ha visti giacere nella cappella di famiglia dell’architetto; duchesse e marchesi e conti Restauro. 
Visi immobili e mani giunte a preghiera sul petto. Mani come le sue, rossastre di mortale livore.
Corpi senza più libertà, indifesi nel banchetto della morte. Vittime dell’umidità e delle muffe. 
Tutti nella stessa posizione, scolpita dai vivi dopo la morte. Figure immobili, tanto nella bara, quanto nei loculi. Così simili ai disegni sulla tappezzeria. 
Lo sguardo dell’uomo ritorna al piede tra le mani. 
È come l’altro, scarpa nera classica, calzino bianco appena accennato prima dello strappo. Scommette che lo strappo sarebbe in perfetta simbiosi con il moncherino della gamba, ma non verifica nemmeno, tanto non saprebbe come unirlo al resto del corpo. 
E poi sa già che può camminare anche con un piede solo, strisciando tra le pareti della stanza da letto dell’architetto. La stanza dove è stata sistemata la tappezzeria della cappella, in un’apparente ventata di necrofora nostalgia del professore Massimo Restauro. Il più benestante professionista dell’Arte di tutta la Regione. Dell’Arte e del Narcotraffico.   
L’uomo lo sa, sì, lo sa perché …
***
- Sei nella merda, architetto.
- La prego, la prego, questo è il luogo dove riposano i miei antenati, dove è seppellito mio padre, dove.
- Dove è sicuro nascondere la merce. 
- Ma.
- Un altro ma e facciamo in modo che il travestito parli. Così tutti conosceranno i gusti dello stimato architetto Restauro. 
- Non c’è nulla da ridere, io.
- Io rido come quando e dove cazzo mi pare, architetto! Hai promesso di agevolare i nostri canali, se ti avessimo portato voti nella giunta regionale.
- Ma proprio la mia cripta.
- Proprio. I cadaveri sono custodi fidati e i vivi hanno timore di violarli. Devi solo fare una cosa, togliere questa cagata di tappezzeria ammuffita. 
- Questa. No, aspettate, aspettate, sono raffigurati i miei antenati, anche mio padre.
- Libera i loculi, togli la tappezzeria per agevolarci l’accesso ai nascondigli. 
- E’ un oltraggio, onorevole, la prego. 
- I suoi piagnucolii mi importano quanto della sua reputazione. Compreso, architetto? Aspettiamo buone nuove tra, ecco, tra una settimana esatta. 
- Tutta la tappezzeria. E dove la metto, dove.
- La regali al suo amante, il travestito. 
***
L’uomo ha assistito anche a questa scena. 
Immobile, silenzioso. Come il cadavere che ha rappresentato.
Si lascia andare sul letto, svuotato in un respiro che può solo immaginare di avere avuto.
Getta il piede amputato in un punto a caso della stanza e con la coda dell’occhio lo vede planare verso le braci del camino.   
Allora ha l’idea. 
Gli incompetenti che hanno strappato la tappezzeria proprio all’altezza del suo piede, gli hanno infine fatto un favore. 
Il tessuto di cui è fatto può ancora prendere fuoco. 
L’uomo si solleva. 
La suola striscia verso il camino. 
Il barone Cesare Restauro era un uomo alto e ha dato disposizioni di essere rappresentato sulla tappezzeria della cripta a misura quasi naturale. 
Suo figlio Massimo, burino di un’aristocrazia sfaldata, ha almeno mantenuto la promessa. 
L’uomo ora ricorda di essere una figura disegnata sulla tappezzeria infiammabile e sa che è abbastanza lungo da fare da ponte tra il camino acceso e le lenzuola del letto.
Non sa come è uscito nel mondo tridimensionale, ma scoprirlo non gli importa più. 
Gli interessa solo di essere stato creato a immagine di un uomo che in vita era stimato per i saldi principi morali, timoroso della Legge di Dio, rispettoso di quelle degli uomini. 
I bagliori delle fiamme si arrampicano sulla parete, sopra il camino, lungo la tappezzeria. 
Lui li segue fino al disegno della casa. Se rappresenta l’abitazione in cui si trova, se anche il resto è in legno come la stanza da letto, forse l’incendio sarà sufficiente per bruciare tutto. 
Il fuoco purifica sempre.
La suola si alza appena e si appoggia sul parquet, un passo dopo l’altro, verso il camino. 
Un ritmo lento
su e giù e stop
avanti e stop e avanti  
È come un respiro sottile, questo passo, pensa. Un respiro vivo.

Onde.
C’è una lunga fila di pali bianchi sul molo. 
I pescatori dicono che si scorgono a miglia di distanza, ma è solo per dare importanza alla spiaggia di Sotto Sotto, che in realtà è un piccolo singhiozzo di sassi prima del mare. Durante il giorno, esiste e non esiste, secondo i capricci della marea. Un faro non c’è mai stato, nonostante le petizioni dell’onorevole Cesare Restauro, che il Signore l’abbia in gloria, uomo tutto di un pezzo, e poi grazie ai silenzi dell’onorevole suo figlio, Massimo Restuaro, che il Signore gli insegni almeno a rispettare le cripte cimiteriali, invece di violarle strappandone le tappezzerie.  
Massimo Restauro è un palo tra i pali. 
Lungo e immobile sul molo, avvolto in un cappotto bianco, sembra scrutare l’orizzonte, dove gongolano figure piccole e scure di imbarcazioni da pesca.
Sa che la gente mormora a causa di questo strano trasloco e, in effetti, visto dall’esterno, spostare la pregiata tappezzeria di famiglia dalla cripta cimiteriale alla stanza da letto, deve essere sembrato ai più quantomeno un gesto macabro. 
“Me li riporto tutti a casa. Ho voglio di addormentarmi con i miei nonni e i miei genitori”, aveva balbettato alla vicina di casa, signora Maria Vegliata in Orecchio, vedova del Cavaliere Lorenzo Orecchio, suo compagno di banco durante il liceo. 
Lei aveva socchiuso ancora di più gli occhi e serrato le labbra, prima di rientrare a passi decisi nella propria villetta. 
La famiglia Orecchio e quella dei Restauro si detestano da generazioni, da quando i rispettivi bisnonni paterni, finita la Grande Guerra, si erano visti assegnare, quale premio al valore militare, lo stesso lotto di terra. Non era certo il primo caso, né sarebbe stato l’ultimo. Nel 1919 il Governo italiano zoppicava e aveva la pancia vuota, per cui, con qualche disinvoltura, aveva demandato al buon senso dei patrioti la ulteriore suddivisione di lotti di terra dati in comune, giusto per risparmiare. E dove non bastava il buon senso, allora arrivava la Legge per dirimere in modo deciso le discordie e sequestrare il terreno, che così tornava allo Stato. 
L’Italia avanzava verso nubi nere e, nel loro piccolo, neri erano anche i rapporti tra gli Orecchio e i Restauro, costretti a dividere il piccolo lotto. 
Compagni di liceo, camerati nella stessa trincea, vicini di casa. Il cane e il gatto hanno più possibilità di stimarsi. Basti sapere che per Italo Restauro, Ottone Orecchio era un bigotto, figlio del Papato, pronto ad anteporre agli interessi della Chiesa quelli della Patria; per Ottone Orecchio Italo Restauro era un socialista ipocrita, pronto a rivendicare la proprietà comune, per poi scannare chiunque osasse rivendicare il diritto su un pezzo di terra. 
Le generazioni crebbero così, costrette al vicinato sul lotto di terra, con due villette che gareggiavano in bell’apparenza, mentre i saluti dei proprietari rimanevano gelidi e poveri.
Probabile dunque che la vedova Vegliata in Orecchio avesse interpretato il trasferimento della preziosa tappezzeria dalla cripta dei Restauro alla villa dell’architetto, come un gesto di sfida. Un tentativo estremo di ulteriore abbellimento a discapito di quella del vicino. 
- Eh – mormora l’architetto Massimo Restauro al mare, le mani che affondano nelle tasche del cappotto – Se solo sapesse …
splash, lo sbeffeggia un’onda, più vicina delle altre. 
Restauro è lesto e tirarsi indietro. La marea sta avanzando e tra pochi minuti la spiaggia di Sotto Sotto sarà sommersa almeno quanto la serenità dell’uomo. 
Mentre torna lento verso l’auto, l’architetto pensa che l’unico modo per liberarsi dal ricatto di don Dino Manipulite, l’unico modo per uscire dal giro di narcotici e prostituzione in cui è stato incastrato, sarebbe pagare una bella somma. Ottantamila, no, che cavolo, centomila euro, subito. 
Si blocca a metà strada tra la spiaggia in agonia e il parcheggio delle auto circondato da salici, che nella penombra del tramonto sembra un antro nero.
Tanti saluti e dimentichiamo tutto, caro don Dino, dimentichiamoci soprattutto delle mie notti con Alessia, quel corrotto hijo de puta. E ‘fanculo anche a me, alla mia reputazione, farmi scoprire a letto con il travestito più noto della vallata. 
L’architetto si morde un labbro, mentre le mani si serrano a pugno nel segreto delle tasche. 
E dove trovarli centomila euro?
Ci vorrebbe un colpo di fortuna, come 
L’onda fugace di un sorriso increspa il viso dell’uomo
come confidare nell’Assicurazione su cataclismi e incendi della sua villa. 
Un incendio che distrugga la sua casa in legno sarebbe l’ideale, accidenti, mi fornirebbe proprio i soldi di cui ho bisogno
Le sopracciglia si inerpicano sulla fronte.  
Probabilmente, sì, le fiamme si propagherebbero alla villa degli Orecchio. 
La gioia improvvisa dell’intuizione entra in ogni fibra dell’uomo, scava, approfondisce di soddisfazione le rughe della fronte, intorno agli occhi. Alle labbra.
Un magnifico rogo purificatore, che mi libererebbe anche della tappezzeria.
Massimo Restauro ha un sospiro lungo come le onde che stanno avvinghiando la spiaggia e ricomincia a incamminarsi verso le ombre del parcheggio. 
L’idea è bella, ma non avrebbe mai e poi mai il coraggio di spingersi a tanto. Anzi, gli sembra quasi di sentire la riprovazione di suo padre, che il Signore se lo fotta ab aeternum per quanto è stato onesto in vita e severo nell’inculcargli sani principi morali. Già, se suo padre, lo stimato Cesare Restauro, avesse solo intuito questi pensieri, sarebbero state cinghiate e digiuno per una settimana. 
Niente incendio per la villa. Niente soldi per spezzare il ricatto di don Dino. 
Massimo Restauro è una figura cupa quando raggiunge la propria berlina, così china sui pensieri da non scorgere il fumo che si innalza da un punto preciso della collina, davanti a lui. 
Il punto dove sorge la sua villa.     

Fulmini e tegole.
Nonostante viva a meno di cinquanta metri dalla villa dell’architetto, Maria Vigilata, vedova in Orecchio, non si accorge del fumo che rotola nell’aria e arriva alla porta della sua casa in un pugno nero e denso. 
Nel tardo pomeriggio di questo giorno, mentre le ombre stanno entrando nel paese di Sotto Sotto, Maria in Orecchio è intenta a spiare il soggiorno del suo vicino, dall’altra parte della collina, e le mura in legno coprono ancora il fumo che esce dalla parte opposta. Si trova lì, attenta ai fatti altrui, come del resto è sua abitudine, concentrata nel carpire ogni segreto di Massimo Restauro. Perché lei sa che c’è qualcosa di losco in quest’uomo immorale, tanto da avere trasportato le cose dei morti nella sua dimora. 
I morti e le loro cose non si toccano, lo ha detto anche don Dino nell’ultima omelia di domenica. I morti hanno il loro territorio e i vivi possono solo essere ospiti transitori e discreti. Che non si mescoli il respiro all’immobilità, la vista alla cecità, il sangue alla putrescenza, non prima del tempo della Resurrezione, ha ammonito tutti don Dino. 
Maria ha ascoltato attenta le sue parole, non solo perché stima don Dino Manipulite, ma soprattutto perché sa che la Resurrezione è dietro l’angolo. E non in senso figurato. 
Dietro l’angolo, ai piedi della collina, c’è il cimitero di Sotto Sotto. 
Lei stava proprio tornando da lì, quando ha deciso di fermarsi a sorvegliare – mica spiare, non è certo persona di tale risma! – la casa dell’architetto.
Tutto ha un senso, pensa Maria Vegliata in Orecchio, mentre il fumo nero riempie l’aria e penetra anche nelle fessure della sua abitazione. 
Mio marito sarebbe orgogliosa di me, si compiace elevandosi di un paio di centimetri sulla punta dei piedi, in bilico su un masso, per scorgere meglio attraverso la finestra le ombre del soggiorno.
Lorenzo Orecchio è morto un mese prima, precipitato dal tetto nel tentativo di riassestare le tegole spostate da un fulmine. 
Prima di adempiere all’ultima ascesa della sua vita, aveva alzato gli occhi al cielo, nella terra di mezzo tra la propria villetta a schiera e quella dell’architetto Restauro, e si era grattato la nuca, perplesso. 
- Mariuccia – l’aveva chiamata con il nomignolo che usava sempre – Guarda quelle tegole, rischiano di caderci addosso.
- Sarà stato il temporale – si era illuminata lei, gli occhi in quelli del marito, senza tuttavia spostarsi dalla veranda, dove stava riempiendo i vasetti di marmellata da portare a don Dino per gli orfani delle vittime di non ricordava-bene-cosa.  
Le dita grassocce di lui era affondate ancora di più tra i radi capelli grigi.
- Uh – aveva grugnito, ora visibilmente irritato – colpa dei parafulmini del nostro vicino. Gli ho chiesto mille volte di spostarli, perché così deviano tutto sul nostro tetto. 
Erano state le ultime parole che Maria detta Mariuccia aveva sentito dal marito, prima dello schianto. Poi, in un confuso susseguirsi di eventi, erano venuti il funerale, la marmellata offerta da don Dino a parenti e amici affranti, il dolore nella solitudine del cimitero, i movimenti di strane persone nella cripta dei Restauro. E il sogno. 
Due notti prima dell’incendio, Maria era tornata Mariuccia. 
Stava innaffiando il giardino, solo che al posto dei fiori c’erano tegole e, invece dell’acqua, dall’innaffiatoio usciva marmellata. Marmellata rossa che feriva le tegole. Si era voltata verso il tetto e aveva visto Lorenzo che sporgeva. La salutava con una mano, mentre con l’altro si aggrappava alla grondaia. 
Attento a non cadere!, avrebbe voluto urlargli lei, ma si sa che nei sogni, come spesso nella realtà, le parole fanno quello che credono e la sua voce era rimasta nella gola. 
Suo marito sorrideva e faceva sì con la testa; sì, su e giù con la testa, sì. E lei capiva che intendeva “sì, Mariuccia, stai tranquilla, anche se cado sono con te e presto ci sarà la Resurrezione, Mariuccia mia, e inizierà proprio da qui, da Sotto Sotto, Mariuccia mia, e staremo davvero insieme per sempre”. Allora Mariuccia si era sentita tranquilla e aveva ricominciato ad innaffiare marmellata; aveva continuato a farlo, serena, anche dopo essersi accorta del tonfo di un corpo pesante caduto dall’alto. 
Poi, quando si era svegliata, aveva capito due cose: che Lorenzo era con lei e che presto dal cimitero di Sotto Sotto i morti avrebbero deciso di tornare. 
E forse la colpa sarebbe stata ancora una volta di quel blasfemo dell’architetto Restauro; lui, il corrotto, oltre ad avere causato la morte del marito con i parafulmini, aveva spostato la tappezzeria dei Restauro dalla cripta di famiglia alla casa. A pochi metri dalla dimora degli Orecchio! 
Ecco perché Maria Vegliata, vedova in Orecchio, ora si trova appesa al davanzale del soggiorno del vicino, in bilico su un masso, così intenta a scrutare l’interno da non accorgersi del fumo che si libera dalla stanza da letto, esce all’aria aperta e cerca nuovi pertugi in cui serpeggiare. 
Del resto, Maria non saprà più nulla, né dell’incendio, né della Resurrezione dei morti. Maria detta Mariuccia sarà presto accanto a suo marito, nella tomba di famiglia, e nemmeno per sempre, ma solo per alcuni decenni, finché le ossa non saranno tumulate in una fossa comune ad altri cadaveri.
Muore all’improvviso la vedova in Orecchio, con il viso sul davanzale del nemico, in un’espressione stupita, che, si dirà, è stata causata dall’essersi accorta dell’incendio che lambiva anche la sua casa.   
Nessuno saprà che le ombre che ha scorto muoversi all’interno della villa dei Restauro sono state troppo per il suo cuore già provato.    

Travi e terremoti
Esumato lavora in proprio e riesce a coprire una media di cinque mesi all’anno, soprattutto grazie alle follie del nobile Restauro. 
Quando ha deciso di rimanere a Sotto Sotto, il terremoto aveva appena devastato il paese, disarticolato la struttura di ogni abitazione, squartato le navate della chiesa gotica. Una rovina immane che era diventata il suo biglietto da visita. Si vedeva già a stringere mani e assegni, nella ricostruzione monopolizzata delle sue contrade. 
Non aveva fatto i conti con il putridume dei Restauro, i loro accordi, o gli obblighi, con i mafiosi. L’appalto per la ricostruzione era stato dato alla famiglia Mattonella. Senza nemmeno la parvenza di una gara d’appalto. 
Restauro & Mattonella, bello slogan, sbuffa Esumato, mentre abbassa il binocolo dalla villa in fiamme, fatto per vincere, ringhia, mentre entra nel monolocale vista cimitero. 
Perché quello era rimasto, a lui, il Cimitero. Le scosse della terra avevano spezzato tombe, esploso liquami, sparso ossa e tessuti neri tra i sentieri e i fiori dei vivi. 
Il terremoto aveva aperto un varco fetido tra i defunti e i loro cari. 
Un’apertura satura di paure ancestrali. 
Evidentemente anche per i Mattonella, che avevano ricostruito Sotto Sotto, ma si erano astenuti dall’intervenire sul luogo dell’eterno riposo. 
Quello, sì, era stato un lavoro concesso a lui. 
Lavorare tra i resti. Dei monumenti, dei loculi, tra le cripte sfondate. 
Tra odori intensi, che avrebbero dovuto rimanere ignorati. 
Sopralluoghi, disegni, tutto sulla morte. 
Esumato ne era uscito scosso. Umiliato. Furioso. 
Il rancore verso Massimo Restauro si era concretizzato nella cappella di famiglia. Le tombe in equilibrio precario, pronte ad aprirsi di nuovo a un lieve singhiozzo della terra. 
E tra le pareti e la tappezzeria, benzene, etanolo, fibre di crisitolo e anfibolo, i letali serpenti dell’amianto. Morte in attesa nel luogo di morte della famiglia Restauro. 
Esumato si lascia cadere nella sedia di plastica, sul terrazzino. Apre le braccia, come ad abbracciare le tombe, la nuova simmetria del cimitero, quella che cela fori e travi lasciati ad arte, sì, proprio ad arte, per annichilire la divisione assoluta tra vivi e morti solo al suo volere. 
Appena deciderà che è il momento. 
Tipo adesso. 
Chiude gli occhi e, intanto, assapora il suono della sirena dei Vigili del Fuoco. 
Troppo debole, troppo lenta, nota, le fiamme della tappezzeria sono avide, sono velenose. Contamineranno chiunque si avvicini, nella consunzione di Villa Restauro.
Un sospiro, lungo. 
Sì, questa è l’ora. È l’ora che Sotto Sotto conosca l’esondazione dei morti tra le vie, tra le case. 
Tra i vivi.  

[continua]
       



testo protetto con sistema antiplagio-neteditor: http://www.neteditor.it/node/137820

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