La penna
Giovanni Sicuranza
Una volta che ho immerso le mani nel tuo stomaco, nulla è stato come prima.
La tua palude a nord dell'intestino. I tuoi residui dell'ultimo pasto insieme.
Sapevo che tu, immobile, aperta, carne e sangue e liquami, tu putrescente, saresti stata l'immagine indelebile che porterò sempre con me.
Per questo non avrei voluto farti l'autopsia, l'ho detto al Pubblico Ministero.
C'era questo evidente conflitto di interesse, lo sanno tutti, al paese, che eravamo uomo e donna promessi al futuro.
Lui ha fatto no no con la testa, nemmeno uno sguardo sul mio viso sciolto nell'afa della solitudine.
No no, ha fatto la sua calvizie cistercense, mentre continuava a scrivere il verbale di conferimento dell'incarico.
Allora, gli ho detto, Signore, gli ho ansimato, proprio non posso; non io, per favore.
La penna si è fermata al primo quarto di pagina, piano, le lettere sono diventate più indecise, rotonde.
Finalmente mi ha visto. Ha capito.
Perché l'ha uccisa, dottore?
E' a quel punto che ho tentennato.
Il movente.
Così forte da spingermi a andare oltre le nostre promesse.
Così lacerante da.
Dimenticarlo.
Ho cercato tra le mani, nei pori delle dita avidi del tuo sangue. Nella memoria del nostro litigio, dentro la mia ira funesta.
Niente.
Niente, ho lasciato dire alle labbra, umide di sconforto, non ricordo più, Signore.
La penna del Pubblico Ministero ha ripreso il cammino sulla pagina, decisa, fino in fondo.
Allora, vede, dottore, l'autopsia è necessaria e lei è il migliore tra i miei consulenti; mi trovi la causa del decesso, mi cerchi tracce di sevizie, tentativi di difesa; ah, non dovrei suggerirlo, certo, ma un'indagine tossicologica, insomma, sarebbe pure opportuna.
Ho annuito, lontano nei ricordi, tu ed io felici, tu ed io insieme, tu ed io.
E poi nulla.
Solo il Pubblico Ministero che completava il verbale.
E l'incedere della sua penna, nel legame obliquo con la pagina.
A spianarle sentieri di inchiostro nero.
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