La Peste, ferita sociale
Nell’ottobre 1347, la Peste si imbarcò su una nave che dalla Crimea attraccò a Messina, portando un carico di pustole, bubboni e putrefazione.
Fu la prima visita documentata del morbo in Europa, a cui ne seguirono altre, ad ondate cicliche, e portò con sé oltre il 30% della popolazione europea.
Nessuno aveva mai assistito a una tale devastazione, così intensa, veloce, da portare sconvolgimenti sociali, che, in parte, ancora persistono nella nostra civiltà.
A differenza di altre forme di epidemia, già conosciute dall’uomo, come il vaiolo, il colera, la sifilide, la peste aveva la caratteristica di una ferocia inaudita che si abbatteva non su singoli individui, o piccoli gruppi, ma su intere città.
Così come improvvisamente era comparsa, la Peste scomparve dopo l’ultimo immane massacro di Marsilia, nel 1720. I suoi festeggiamenti, prima di salutare l’Europa, furono in grande stile, con decimazione della città, impotente, anche se preparata alla prevenzione, ma debole agli interessi delle corporazioni, che fecero di tutto affinché il morbo venisse sottostimato.
L’arrivo e la scomparsa della Peste, che rimase in Europa per quasi quattro secoli, sono un mistero.
Marsilia dimostrò che, anche alla fine, conservava tutta la sua primordiale letalità. Eppure, ad oggi, non si è più presentata. La supposizione più accreditata è che il batterio Yersinia pestis sia mutato in un ceppo meno virulento, o diverso. Il che non esclude che, al pari di altri microrganismi potenzialmente pericolosi per il genere umano, non rinnovi la sua carica.
In ogni caso, la Peste Nera, come fu chiamata in seguito a causa del colore dei bubboni (nel Medioevo aveva altri termini, come “male miasmatico”), lasciò cicatrici indelebili non solo per la lunga scia di morte, ma anche per il modo di concepire la stessa morte.
Basta osservare, in Arte, come, dalla fine del XIV secolo, compaiano le prime raffigurazioni non più tranquillizzanti, paradisiache, della Morte, ma come questa venga rappresentata in modo cupo, drammatico, angosciante: lo scheletro a cavallo tra i cadaveri, il ritratto dei morenti con realismo agonico. Dalla peste, come ho accennato nel mio precedente articolo, “Il mito della Modernità. Il vampirismo” (vd.), inizia a svilupparsi la nera figura del non-morto, mentre ogni essere umano, dal più giovane, apprende la drammatica testimonianza della convivenza con ogni aspetto della morte. Ovunque, cataste di cadaveri in putrefazione, maceri, neri, sono il selciato di grandi città. È anche in questo contesto che si sviluppano balli ancestrali, come antidoto alla morte, balli frenetici, che mirano al raggiungimento di un’estasi per comunicare con il divino, affinché conceda il perdono e la protezione. Tra questi si ricorda la “taranta”, che, già presente in tempi remoti, nella peste trova motivo di slancio.
Altre furono le conseguenze del morbo.
La diffidenza verso le Autorità e la Medicina (dal Clero ai medici, dai rappresentati dello Stato, molti fuggivano in campagna, o comunque lontano, lasciando il popolo privo di aiuto), ancora presente nell’uomo moderno. La paura di nuove ondate di morbi mortali (paura giustificata: si pensi ad esempio all’epidemia della c.d. influenza spagnola; alla comparsa di nuovi, mortali virus come quello dell’HIV, etc.).
Le prime forme massificate di strage dei “diversi” (ebrei, sodomiti, eretici), ritenuti, proprio perché esseri in condizioni di peccato costante, responsabili della collera divina, a sua volta causa delle pestilenze.
Per questi motivi, personalmente, e al momento, sto creando il concept album “Peste & Taranta”, una visione sulle cicatrici che hanno cambiato in parte il modo di concepire il mondo e che, ancora, mordono sulla nostra società.
Giovanni Sicuranza
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