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Il treno a vapore


Il treno a vapore - Giovanni Sicuranza


Tum tu.

Non è il mio cuore, pensa l'uomo, eppure è come un cuore.

Tum tu. Tum tu.

È solo questo

Il pensiero si lacera nel vuoto quando gli occhi terminano la scalata dagli stivali ai capelli reclinati della donna.

È seduta accanto al finestrino, di fronte al suo posto.

Da quando è salito alla stazione di Roma, lei è immobile, il mento addormentato sul petto.

Appena vista, ha deglutito in un oscuro senso di smarrimento; non era il naturale disagio che prende ogni volta che si è costretti a stare accanto a una persona sconosciuta, nel petto pesava una dose di inquietudine in più.

Dorme? È ubriaca, forse drogata?

Dio osanna, è forse morta?

Tum tu, tum tu, singhiozza il treno sulle rotaie.

C’erano altri posti liberi sulla carrozza, ma alla fine lui ha deciso e le si è seduto accanto.

I capelli scendono fino alla vita, infiniti e densi, una maglia scura che cela il viso.

Ma questa donna nascosta è bella.

Ne ha scorto la femminilità sul collo, nel carattere discreto e pieno del seno. Ne ha rapito le cosce, avvolte da calze grigie, tra i confini degli stivali e quelli della gonna nera.
E' un terreno che promette dimore.

E' così che l'uomo cede.

E lui.
Il giornale incurante sul grembo, lo sguardo oltre i titoli, a percorrere un viaggio instancabile dalle gambe al seno della donna.
Andata e ritorno e di nuovo, senza fermate.

Sbam!
Esclamano all’unisono le portiere del treno, e solo adesso lui si accorge di essere l’unica presenza nel vagone.
Con questa donna immobile.

Tum tu, tum tu, tum tu.

Una sistemata sullo schienale rigido, attento a non sgualcire troppo l’uniforme di rappresentanza e, niente, non resiste, riprende l’altalena dello sguardo. Cerca almeno di restringere il campo, dal giornale alle cosce velate.

La ghigliottina nella credenza popolare”, titola la prima pagina della cultura.

E l'uomo si ritrova.
Ha un nome, Aristide Decollato.
Ah, ben svegliata, signora, dice alla donna senza occhi, mi presento, se permette; sono un medico, un neurochirurgo per la precisione, e viaggio verso il primo convegno del Regno d’Italia sui disturbi neuronali dell’encefalo.

La donna è seduta di fronte, ma chissà dove.
Aristide Decollato sospira, socchiude gli occhi, li depone sul giornale.

Ma che razza di articolo.

Tum tu, tum tu.

Lo sguardo, all’improvviso, sussulta sul finestrino, sale con le nuvole grigie del vapore, respiro della locomotiva, poi cede ancora alla donna.

Non c'è movimento.

Non è il mio cuore, si rassicura il professore Decollato, sono solo le ruote del treno, la corsa sui binari.

Tum tu.

No. È il mio cuore.

E in questo momento si rende conto di avere perso l'orientamento.
Cerca, scruta attraverso il finestrino, si affanna per un indizio che lo aiuti a comprendere dove si trova.
Niente,
Filiere di alberi bui, tutti uguali, tutti in corsa dalla parte opposta del treno.

Il professore Decollato appiccica il naso al vetro, incurante della corrente di vapore che penetra e gli riempie il respiro, mentre la fugacità dello sguardo riesce ancora a scivolare sulla donna reclinata, sulle sue cosce tornite, velate.

Ma un istante dopo la donna è già negli scantinati dell’attenzione.

Sì, adesso i battiti del cuore superano il ritmo del treno.

Questi alberi, queste file di legno negro che scivola lungo il fianco e non ha fine non esiste nel percorso Roma – Torino.

Lui ha preso il treno più veloce, il 1908 Crosti, vanto delle Ferrovie dello Stato, per essere a Torino alle 08.00, come ha fatto altre centinaia di volte.
Mai ha scorto questi alberi, così uguali. Spogli. Bruciati tutti. 

No, di più.

Si innalzano storti, spaventapasseri d'inverno, e hanno qualcosa di strano, tutti, nel mezzo.
E' come un dente di metallo, che riflette il sole e non permette di distinguerne la forma.

- Non sono alberi.

- Ahhh!

Tum tu, tum.

Il cuore di Decollato si ferma.
O è il treno che interrompe la corsa.

A volte capita.
Le Ferrovie dello Stato, vanto della modernità, sono nate solo tre anni prima e molti dei binari rappresentano ancora un percorso fragile, da solcare in un sussurro.
A volte, ecco, occorre frenare all’improvviso, in un lungo fischio di vapore, nell’acuto grido dei freni, perché il binario è interrotto da una frana o da mandrie animali.

Ma il vapore che ancora avvolge il finestrino, che con audacia si insinua tra gli indumenti, e ha lunghe dita per il naso, svela che la corsa procede senza problemi.

- Mi ha spaventato – tenta di giustificarsi il medico, cercando un tono divertito tra le gocce di sudore che dalla nuca si intrufolano sotto il colletto della camicia.

- Mi ha spaventato – ripete, perché la voce della donna lo ha davvero scosso.

E poi non riesce ad aggiungere altro, perché in realtà è ancora spaventato. 
Troppo spaventato.

La donna ha parlato, eppure è immobile. 
I capelli chiudono il volto.

- Mi scusi - inizia il medico.

Si chiede se non era meglio se dava retta a sua moglie; stai a casa, tesoro, hai un brutto mal di gola, senti che voce; manda a Torino uno dei tuoi assistenti.
Certo, forse Meningiosi, che sulle connessi sinaptiche tra testa e collo ha fatto una noiosissima ricerca.
Tesi con Relatore, il professore illustre Decollato, come no.
Se avesse potuto, lui avrebbe dedicato a Meningiosi solo le sinapsi sufficienti per un calcio nel culo. Quel boriosetto arrogante di un dottorino.

“Quel figlio del Sommo Rettore”, si corregge, con la voce della moglie, “Il cugino demente dell’Onorevole Giolitti”.

Così l’attenzione torna sulla donna, sulle sue cosce, sulla moglie che lo osserva con gli occhi dell’immaginazione, e scuote la testa.

- Sta a vedere che mi sono addormentato – si dice, cauto, già sentendosi meglio.

La donna non ha parlato, la donna è immobile.

Ma mica è morta, ci mancherebbe.

Starà dormendo, da chissà quanto. Forse torna a Torino dopo una notte di lavoro.

Le labbra, ornamentate da baffi sottili, si arrampicano appena nell’aria, verso una smorfia sardonica. Il professore Decollato pensa alla donna che gli ha procurato Meningiosi nella notte, in albergo, a Torino.

Dopo le ore 22, rigorosamente, solo dopo che avrà trovato la linea telefonica libera, solo dopo avere chiamato la moglie per rassicurarla sul viaggio e sul fatto che la gola sta meglio.

“Sei sicuro?”, gli sembra di sentire la sua voce baritonale, dall’altro capo del telefono, “Oggi dicevi che bruciava”.

“Va meglio, cara”, risponderà lui, e magari avrà le mani appiccicose per gli umori del suo desiderio, “Mi sento già un altro, in piena forma”.

“Stai attento, Torino è una brutta città. Non hanno fondato loro la nostra civiltà”.

“Certo, cara”, e li dovrà stare davvero attento. Attento a non mostrarsi troppo allegro, perché i viaggi organizzati dal Governo, nel ruolo di esperto sui gas letali, gli riservano sempre donne sublimi.

“Buonanotte, cara”.

Poi verrà una notte di appagamento.

Il professore Decollato posa ancora gli occhi sulle cosce della donna, con un nuovo interesse.

E se fosse lei la prescelta?

Una piacevole sensazione al basso ventre, un rapido movimento della lingua sui baffi.

Tum tu, tum tu.

Ora il suono del treno è rassicurante. E' ritmo che culla e rilassa.

Il professore Decollato ha dimenticato gli alberi strani.

Non ha nemmeno più male alla gola.

Esiste solo per la donna.

Con le mani della mente le solleva la gonna, per scoprirle la scultura delle cosce, per annusare i sapori della foresta tra le gambe.

Il sussulto di un’erezione lo spinge a interrompersi; anche se il vagone è deserto, insomma, lui è pur sempre il professore Aristide Decollato, stimato neurochirurgo del Regno d’Italia.

Sperimentatore di una miscela di gas che annienterà la volontà dei ribelli della Cirenaica.

Si stacca appena dalla sedia, giusto lo spazio di infilare una mano sul dorso camicia, per controllare che non sia troppo sgualcita, e si stupisce di quanto sia bagnata.

Troppe emozioni, accidenti, contegno, professore, contegno, per Dio!

Il palmo della mano esita, scorre lungo la schiena verso il collo. Questa camicia zuppa, pesante.
Ma non è sudore. 

Decollato si alza in piedi, con uno scatto, e in quel momento avvengono in contemporanea due scoperte, che bruciano per sempre ogni sinapsi esercitata in cinquant’anni di carriera:

la sua mano è imbrattata di sangue;

la donna si è alzata di scatto, all’unisono con lui.
Veloce.
Alta.

Solo che la testa, con tutti quei bei capelli di seta neri, è rimasta sul sedile.

Tum.

***

Siete protesi vero me, tutti.

Il silenzio è la vostra esortazione a proseguire.

Beh, devo darvi due delusioni anch’io, allora, sia pure non letali come quelle avute dal professore.

La prima, la pipa si è spenta, per cui dovete aspettare.

Eh, sì, ora va meglio, uhm, il sapore che sento è quello dell’agonia. C’è anche Decollato, qui dentro.

Cognome appropriato, vero? Voglio dire, uhmmm, dovreste sentire l’aroma di questa pipa, no, dicevo, prima studia le sinapsi tra la testa e il collo e poi muore per la vista di una donna senza testa. Decollata, appunto. Decapitata.

La conoscete la storia della ghigliottina, vero?

Ora, non voglio portarvi fuori strada, infatti il discorso c’entra, eccome.

Per molti, molti anni il dibattito mondiale, non solo francese, badate, fu se il ghigliottinato, non conservasse ancora consapevolezza della propria morte, mentre la testa era già staccata dal corpo.

Beh, ora sorridete, ma provate a immaginare l’angoscia, l'impotenza, ecco, sentite l’orrore del decapitato, mentre vede se stesso in una cesta, tra il sangue, e pensa, pensa chissà cosa per l’ultima volta.
Mentre la testa perde la vita, eppure ancora viva, lontana dal sacco morto del corpo, comprende.

Vedete, Decollato si occupò anche di questi studi, durante la sua attività. Per questo motivo fu colpito dall’articolo sul giornale.

Vi ricordo che, all’epoca, la ghigliottina era al crepuscolo, nascosta nelle penombre delle carceri, ma zitta zitta continuava a fare il suo lavoro.

Decollato e Meningiosi, il successore nello studio dei gas che gli italiani avrebbero usato sui libici, erano esperti in materia.

Giolitti diede loro via libera anche nella sperimentazione dell’attività elettrica della testa dei decollati, subito dopo l’esecuzione.

I due esimi conclusero che erano tutte fandonie.
Non c’era sopravvivenza, se non di poche frazioni di secondo, con la coscienza subito obnubilata dall’emorragia cerebrale e dallo shock del trauma.

Così scrissero un articolo, si presero due donne d'alto borgo per festeggiare, e il giorno dopo si dedicarono ai gas bellici.

Beh, come vedete questa storiella c’entra con il nostro professore.

E, se volete, l’ironia della sorte, un'altra, è che i gas di cui si stavano occupando i due medici, e di cui Decollato avrebbe dovuto relazionare al Congresso di Torino, erano una miscela di oli e torba e qualcos’altro.
Prima di soffocare, davano visioni di sangue, allucinazioni di quanto più si temeva. Come ad esempio il distacco della testa dal corpo, che chissà quante volte deve avere tormentato, se non la coscienza, almeno i sogni del nostro stimato professore.

Ah, vedo che qualcuno di voi spalanca gli occhi.

Allora la seconda delusione non posso più darvela.
Perché avete capito che questa storia non è solo fine a se stessa, nella conclusione tragica, ma ha anche una spiegazione.

D’accordo, fatemi gustare ancora un istante il terrore di Decollato attraverso la pipa e vi spiego.

Un terrore breve. Breve e intenso.

Decollato disprezzava Meningiosi, non con l’intelligenza di chi comprende davvero, ma con la boriosità di chi si sente superiore.

Due responsabili per un esperimento così delicato, come la sperimentazione di un gas vietato dalla comunità, erano troppo, davvero. E già Decollato aveva dimostrato al collega che non gradiva la sua collaborazione.

Un errore, perché Meningiosi era parente di Giolitti.
E molto più ambizioso di lui.

Meningiosi decise che Decollato sarebbe stato la prima cavia del gas.

A piccoli dosi, nel laboratorio, era riuscito a fargliene inalare a sua insaputa. Nulla di particolare, perché il vero esperimento doveva avvenire in condizioni di massima euforia per il collega.
Durante il viaggio in treno verso il successo del Congresso.
A concentrazioni di piccolo assaggio, di preparazione, direi, il gas era sufficiente a procurare mal di gola.

Oh, mi chiedete se il Governo era al corrente.

Vi rispondo con una domanda: secondo voi come mai Decollato era solo su quel treno?

C’era la donna, dite?

Sicuri?

Forse nel vapore del treno c'era il gas che Decollato inalava.
Il vapore che penetrava dai finestrini,
che invadeva i neuroni del professore.

I treni a vapori non funzionavano solo a carbone, ma, a volte, anche con miscele di oli e torba.
Quale arma migliore, occultata e potente, di un lungo viaggio in treno per eliminare il professore?

Se è andata così, e guardate che sto solo narrando il mio punto di vista, io dico che il primo vero sperimento con i gas bellici è riuscito bene.

In effetti non so spiegarvi perché l'uso di questi gas venne abbandonato.
Forse era troppo costoso produrlo, ma Meningiosi fece comunque carriera, fino a vedere la celebrazione completa dell’Impero.
E di se stesso.

Mussolini gli dedicò una statua, proprio a Roma, che nel 1944 venne distrutta da un bombardamento. Si dice che, finita la guerra, i suoi resti furono gettati in una cloaca per soffocarne i miasmi.

Ah, no, non è questo il vero finale della storia. 
Una storia non ha mai una fine, prosegue oltre quelle che narriamo.

Adesso tornate nel treno. Non c’era nessun’altro se non il professore, giusto.

Ma l’esperimento di Meningiosi prevedeva la valutazione di tutti gli abitanti nei pressi dei binari.

E molti, contadini ignari, le loro donne, e i bambini, tutti morirono lungo il viaggio del treno.
Mi chiedo quali furono le loro ultime allucinazioni.
Le loro atroci visioni.

Sapete, figlioli, una volta la tratta Roma-Torino passava proprio attraverso la nostra terra.
Da allora, in serate come questa, io, e i nostri nonni prima di me, accendiamo la pipa.
La assaporiamo a lungo. 
Nel frattempo, sempre soli, ascoltiamo le urla.




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