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Il mio romanzo



 Il mio romanzo – Giovanni Sicuranza

Non credere che sia stato facile. 
Aprire la tua porta, voglio dire, entrarti dentro. 
Essere la simbiosi della tua carne, quando la carne suda e sanguina, quando soltanto respira.
Lui fa così, parla con frasi brevi, spezzate, una coltellata dopo l’altra nell’aria. 
Non hai nemmeno il tempo di scoprire il dolore che ognuna di loro apre dentro e subito c’è il punto a capo-ferita-lettera maiuscola. 
Insomma, è tempo, mi lasci, dico veloce, solo per interrompere i movimenti ripetitivi della sua narrazione, Lo comprendo, basta che non ci giriamo ancora intorno.
La sua bocca succhia aria, sento il fruscio degli atomi di ossigeno che gli scoppiano tra i denti, poi si chiude, si apre, si chiude. 
E’ come un vinile che salta e scoppietta e non comprende la bellezza della musica.  
Non sei, tentenna.
Scuoto la testa. 
Non sono triste. 
Però non lo guardo in faccia, me ne sto con lo sguardo appassito sulle mani e con le mani distese sul letto.
Ah, e non sei, insomma, sicura, non sei. 
Non provo nemmeno rabbia. 
Ah. 
Silenzio. 
Forse adesso ho tutta la solitudine per me e ritrovo l’antropologia della nostra esistenza. 
Nessuno accanto, nessuno contro, ognuno distante. 
Giunge a volte un amore, 
arriva sulla riva di promesse infinite, 
ma le promesse sono fonemi della carne, non nascono dall’anima come crediamo; le promesse sono suono, entrata e uscita dell’aria dalla nostra gola, il sound delle corde vocali e della lingua, questa cosa umida che adesso se ne sta inutile ed ingombrante dentro la bocca.
Cosa me ne faccio se non ho più nulla da dire, se con la lingua ho già conosciuto i sapori del cibo e dell’amore e non mi è rimasto che un intorpidimento delle loro miscele. 
Sussulto. La sua mano è scesa sulla mia spalla, la destra e subito dopo anche la sinistra, un tocco trasversale, caldo, troppo caldo. 
Lasciami sola, credimi, non occorre altro.
Dici davvero? 
Vai. 
Sì. 
Non avrà i miei occhi nei suoi, è tardi, anzi, è il presente, l’eterno presente. 
Beh, dammi un segno almeno della tua clemenza. Non sono un mostro. 
Se potessi, amore caro, sarei io a decidere di lasciarti, quindi vai, vai pure e non ferirmi con i tuoi sensi di colpa.
Forse adesso comprende, oppure non trova altra ispirazione per raccontarmi di un sentimento oltre il nulla.  
Non importa, basta chiudere gli occhi, farlo con la consapevolezza che non li aprirò più, sentire il sapore denso della deglutizione e ascoltare tutti gli spazi vuoti che mi si aprono dentro. 
Ognuno di noi è la narrativa degli altri. 
Per questo la nostra vita è sociale, per essere raccontata.
Per questo adoriamo le storie e ci appassionano i personaggi dei romanzi; sono le proiezioni del nostro esistere nelle parole degli altri.  
Ciao, dice lui, ostinato. 



Vai via, ansimo con la fatica di un trasloco, Insomma, lo hai detto anche tu, è finita. 
Ti porterò con me, sempre, parlerò di te in ogni mio giorno. 
Certo, basta che adesso te ne vai. 
Succede davvero. Lui va. O forse vado io. 
Non sento nulla, nulla più di me stessa. 
Mi immergo dentro questo respiro secco, scendo nei suoi rantoli bui e più diventa ripida la scala, più scopro una persona sconosciuta. 
Tutta la vita ad ascoltare le vite altrui, a vivere la mia attraverso le altre. 
Frenetica, instancabile, amante, madre, lavoratrice.  
Ora riesco a leggere il libro della mia persona in versione riservata.  
Peccato sia tanto breve questa lettura sul letto di morte.  


[immagine: "Jeune Fille lisant une lettre à la bougie" - Jean-Baptiste Santerrecollections du musée des beaux-arts Pouchkine à Moscou]
    
   

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