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Lucciole



Lucciole - Giovanni Sicuranza

Qualunque storia brucia in fretta; sui social network, lo sai, la condividi e già ci aspettiamo che altro prenda il suo posto; siamo catene di montaggio del copia e incolla. 
Le spalle alla finestra, l'uomo parla adagio alla ragazza; lei, seduta di fronte, è costretta ad abbassare lo sguardo per proteggerlo dal fuoco dell'imbrunire. 
Mi dispiace, continua lui, non metto in dubbio il tuo talento, mia cara, ma, vedi. 
No, guardi, ci sono diecimila persone, inizia lei, rauca, guardi, seguono la mia pagina, tutte. 
Lui scrolla le spalle, un gesto veloce a liberarsi da quelle esili parole.
Te lo ripeto, mia cara; 
pausa;
la grande mano dell'uomo cala sul monitor del portatile, lo soffoca sulla base, interrompendo il collegamento ad internet; 
non discuto su come scrivi, il punto è questo, il punto, fissatelo in quella testa esplosiva, è che non avrai recensioni, non avrai nemmeno dignità di scrittrice tra chi ti legge, non finché ti disperdi sul web; se non pubblichi, possibilmente con una casa editrice seria, possibilmente romanzi e non questi, uh, come vogliamo chiamarli?
Sono racconti, racconti, deglutisce lei, in un respiro lieve come l'agonia del sole.
Racconti, dici; ecco, vedi quanto esageri; siamo su questi social network per divertirci, per strappare le frustrazioni e le ansie alla vita reale e crearci migliori; siamo continua ricerca di identità, selfie tu che selfio anch'io; anche se scrivi centinaia di racconti, anche se hai questa pagina su Facebook, non sei l'evento dell'anno, non sei nemmeno l'evento di questa giornata; chiuso il collegamento, i tuoi personaggi, mia cara, smettono di esistere e la narrativa che rimane è quella pubblicata. 
Annuisce, la ragazza, lenta. 
La poltrona imbottita, grassa, ansima quando l'uomo si lascia andare sullo schienale. 
Trovati un lavoro, ragazza, divertiti, anzi, sposati e figlia, se questo cazzo di società è ancora in grado di farvi vivere, e ogni tanto, oh, certo, scrivi su Facebook, ma lascia stare noi che viviamo di recensioni; ah, non sai quanti ne abbiamo, di libri, libri veri, intendo, numeri da fare sfigurare gli spermatozoi in un eiaculato di coniglio.
La ragazza si alza, le dita di una mano che cercano quelle dell'altra e si abbracciano, strette. 
La sovrabbondanza della narrativa è un pasto ottimo per voi recensori, dice.
L'uomo fa sì con la testa e subito smette, ingoia un sorriso e apre la bocca a mostrare denti ingessati dal tartaro. 
In che senso? Cosa vuoi dire?
Le dita di lei si piegano all'interno dei palmi, affondano nella carne a cercare protezione. 
Voi recensori siete i parassiti della narrativa. 
I parassiti? 
I parassiti della narrativa, certo; ve ne nutrite, nel bene e nel male di un giudizio; anche quando denigrate l'autore, avete bisogno di lui per la vostra visibilità; anzi, peggio vi appare l'opera, più assaporate il modo in cui triturarla davanti al pubblico.
Sei venuta qui per questo, allora. Sapevi che avrei rifiutato di dare attenzione ai tuoi racconti virtuali e ti prendi la rivincita sui rifiuti, anzi, mi correggo; 
i gomiti dell'uomo si appoggiano alla scrivania, rotondi, silenziosi, e così giacciono; 
non sui rifiuti, ragazza, sull'indifferenza. La tua pagina Facebook è infine solo questo, anche se si gonfia di gradimenti, rimane indifferenza. Quanto ti rode, ragazza?
Ho detto, mi ascolti, ho detto; 
anche le labbra, come le dita, si cercano, si serrano, un attimo, bloccano il respiro, ancora un attimo, un attimo solo, e improvvise sfiatano parole; 
ho detto che siete parassiti nel bene e nel male di un giudizio, un vostro limitato giudizio; si tratta sempre di una vostra personale opinione, una chiacchiera da bar autoproclamata recensione. 
Eppure, quando dell'opera scriviamo bene, vi fa comodo. 
Perché sbagliamo, credendovi necessari.
Quindi anche voi siete i nostri parassiti; ci accettate perché, scrivendo della vostra opera, vi permettiamo di emergere tra le centinaia di titoli, fosse solo il tempo di una fugace boccata di notorietà. E adesso vattene, ragazza, torna all'oblio; ho udito abbastanza. 
Sì, fa la testa di lei, discesa sul mento come il sole oltre l'orizzonte.
Anzi, no, aspetta un istante. 
L'uomo solleva il monitor del portatile, un sibilo sottile, asmatico, e un riflesso verde, anelito di vita, scintilla sulle lenti degli occhiali; le dita zampettano sulla tastiera; voglio solo chiederti, saputella, secondo te, se smettiamo con le recensioni, ai lettori cosa rimane? Insomma, sono curioso, come fanno a capire se rincorrere un buon libro o dimenticare una fregatura?
Il vostro è solo un parere, vale come quello di altri, questa è la premessa che ignorate e che vi rende presuntuosi, al punto da ridicolizzare l'autore che si permette di replicare, che non accetta un vostro verdetto con passiva umiltà.
Sì, sei stata chiara; e dunque? 
Dunque basterebbe pubblicare la sinossi e qualche brano dell'opera, solo questo, senza commenti, così ognuno si fa l'idea che crede, libera da ogni limite di giudizio.
Per favore, ragazza, noi non siamo gli inquisitori della narrativa. I lettori hanno bisogno di pareri, chiedilo agli iscritti alla tua pagina. 
Una mano di lui rotola verso il pulsante dell'abat-jour e nuova luce irrompe sulla morte del giorno.
No, anzi, lascia perdere, ragazza, non chiedere nulla. 
L’uomo si alza dalla sedia; sbuffa; gli occhi scrutano dettagli, si infilano tra le penombre artificiali della stanza e tornano al monitor, più pesanti. 
Lo immaginavo, pretendi di esistere, ma non hai dignità narrativa. Sei come molti altri personaggi, tutto qui, basta leggervi in una luce diversa da quella con cui vi hanno creato e svelate la vostra inconsistenza. Mi dispiace per il tuo autore, non credo proprio che potrò scrivere bene di te. 
Un sospiro, uno solo, e le dita riprendono a selezionare lettere sulla tastiera.




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