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Dire, fare, baciare, lettera, testamento

Dire, fare, baciare, lettera, testamento - Giovanni Sicuranza
 
Il reverendo con un unico braccio, sollevato, rigido, con il dito teso a indicare il mondo al di fuori del cimitero, è come un albero morto, secco sull'erba feconda tra le lapidi. Il dito è vecchio, fragile, tremulo al vento che sbuffa da mesi sul mondo.
Sono tutti morti, dice, e anche se i suoi occhi sono secchi di lacrime, avverti la sua voce che geme, senti le fratture di ogni parola, e capisci che il baratro dopo, per quest'uomo smarrito, è il suicidio.
Tutti positivi, guardali, contagiati, contagiosi, barcollano per cercare ciotole di aiuto, ma non ce la facciamo; il dito crolla esausto lungo il fianco; signoreiddioperdonaci, non ce la facciamo più.

 Ti incammini verso la cripta, perché non hai più nulla da dire, nulla da fare, e nessuna persona da baciare, se non vuoi essere il prossimo; ti è rimasta solo la lettera, questa stampa del Ministero con le Circolari per isolare i malati, e, dopo, forse, il tuo testamento, ultimo atto di una natura morente.
Dietro di te, intorno a te, inizia il tiro al bersaglio; è disposto nella Circolare del Ministero.
Il contenimento è fallito, rimane l'esecuzione.
Non vuoi vederli, acceleri il passo, ma è come se ti fossero davanti, donne e bambini e anziani e tutti, tutti-tutti, che si afflosciano vomitando zampilli di sangue dall'esplosione sulla fronte.
I soldati che sparano sono gli stessi che devono bruciare i cadaveri. Alcuni non ce la fanno, alcuni perdono se stessi e vagano tra gli infetti, fino a diventarne uguali.
Il virus teme il calore, però il mondo è diventato il suo alleato migliore, perché piove e fa freddo da mesi, ormai, ovunque. E l'acqua dei fiumi, in piena, affoga le strade, si porta in giro i popoli di cadaveri con le briciole dei campi d'emergenza sanitari.
Fai un passo nel nero della cripta.
Uccidere gli infetti è un paradosso, perché questo virus si glorifica nella carne defunta.
Nulla è più contagioso di un cadavere.
Qui dentro gli spari arrivano fiochi, e anche la luce è esamine, ma non è un problema, conosci le scale una ad una, sono i tuoi passi di sempre.

Film e telefilm su zombie, videogames; i morti viventi sono diventati l'evento mediatico per ogni età. Tutti a giocarne, a parlarne, a leggerne e a vederne; storie di cadaveri che tornano in vita per mordere i viventi e trascinarli nel loro limbo.
Quando è arrivato l'Ebola, l'Ebola che scava e uccide dentro, mentre sudi e esondi sangue, l'Ebola che si acquatta nei morti, in attesa del prossimo ospite, nessuno ha riconosciuto la vera epidemia di zombie. 
 

Gli umani sono strani, ti dici, mentre giaci supino sul marmo della tomba; del resto, nemmeno ti hanno riconosciuto, anche se hanno visto centinaia di film sui vampiri; forse le loro finzioni servono proprio a questo, a nascondere ciò che accade davvero, forse riescono così bene a celare il quotidiano con l'immaginario, la realtà con la metafisica, che se l'evento non accade sullo schermo, e nei libri, non esiste. A ricordare che l'Ebola è stato trasmesso dai pipistrelli, tuoi affini, a spiegare che l'orrore narrato delle tradizioni è sempre figlio, e non padre, di quello reale, nessuno ti crederebbe.
Il mondo fuori si annulla, il sangue è malato; sospiri, pensi alla fine del tuo cibo; pensi a come una specie, quando si estingue, trascina nell'oblio molto più di quanto crede.
[immagine: Kubin, Epidemia, 1900, Milano, Fondazione Mazzotta]

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