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due minuti


Due minuti - Giovanni Sicuranza

Quando succede, credimi, sei solo. 
Tu e nient'altro che la tua solitudine. 
Chissà se comprendi mai la glaciazione della morte, l'estinzione di massa di ogni tua sensazione.  
Certo, magari ci hai sperato da una vita, che so, perché sei stato circondato da persone imposte, svuotato da empatia, ma lascia perdere quel sorriso sghembo, ti sta come un salice piangente a sfregiarti le labbra.
Tra poco avrai la necessità di liberarti dal peso della notizia con un sospiro. Un sospiro lungo. 
Un sospiro sottratto dalla totalità finita dei tuoi respiri. 
Per il momento c'è ancora tempo per riflettere su come questa società ha rimosso la fine dell'individuo; più acquisiamo consapevolezza della vita, della nostra singola vita, più la morte ci appare inenarrabile. 
Lo vedi, la morte deve accadere distante, meglio se ospedalizzata, in un reparto apposito, in una casa di riposo, una eterno riposo s.p.a.; che sia ovunque, purché lontano dagli sguardi dei vivi. 
La morte rimossa, la morte negata. 
Abbiamo sconfitto malattie, e quante pandemie uccise dall'uomo, non tutte, certo, ma molte, tante. 
E poi rimane questa cosa assurda che è la morte. 
Ai funerali si va di corsa, con i familiari superstiti si fatica a trovare parole adatte. 
La morte altrui disorienta. 
Quella vicina, intendo, perché sappiamo esorcizzarla nella libidine di quella sceneggiata, narrata sui video, sbirciata attraverso un incidente stradale. Quella lontana, tenuta a distanza, quella che non ci chiama direttamente, ci attrae con un fremito, ne abbiamo anzi bisogno, perché mostra che noi, qui, continuiamo a vivere.
Ah, che fai, non ti alzare, ricorda che se smetti di leggere adesso, ti rimane la realtà. 
Pensa che nemmeno riusciamo a dire di un nostro caro che "è morto"; ehi, mio padre è morto, sai che mia figlia è morta, figurati, no, ci giriamo intorno, sudiamo metafore, da "papà se ne è andato" a "la cucciola è volata in cielo". 
Non ridi? 
Io, scusa, lo trovo buffo, assai buffo, perché vedi cosa accade, accade che non credete in noi, noi figli della vostra paura.
Ci vuole nulla a trasformare i defunti in zombie, basta allontanare l'idea della morte e privare noi morti di dignità. 
Per questo torniamo. 
A centinaia, a migliaia. 

E voi nemmeno ci realizzate, nemmeno osate darci la dignità del riconoscimento, figurarsi, siamo la morte che cammina accanto alla vita vostra e allora basta renderci fonte di commercio, in questo siete bravi; diventiamo film, fumetti, merce di questo intrattenimento che è vostra misura di vita.  
Adesso alzati, dai, non so quanto hai trascorso a leggere questi deliri miei, forse un paio di minuti.
Io non ho altre parole, mi scuserai se, come dire, mi manca il fiato. 
Torno alla tomba mia e tu puoi ritenerti libero di trascorrere la sera come meglio credi. 
Già, alzati piano, e mentre lo fai, per cortesia, scopri questo, scopri che hai appena perso due minuti della vita. 
Andati per sempre. 
Magari chiediti se in questi due minuti hai vissuto.  
Chiediti se ne valeva la pena. 



***


Due minuti – secondo passo 

Non si alza. 
L’incubo dello zombie ha lasciato in questa sua stanza un tramonto acre e fetido, come di agrumi spremuti nella fogna. 
Lui 
non si alza.
Due minuti smarriti. 
Pensa al romanzo, da due anni non riesce a terminarlo. 
Ha scritto capitoli sparsi, disarticolati tra loro, come singhiozzi di narrativa; mentre descrive corpo e sangue di uno, ecco in arrivo un altro, ma non è che l’insieme dei singhiozzi forma un senso se non 
nello spezzare la trama del respiro. 
Sussulta quando intorno riprende lo zampettare delle travi.
La famiglia di topi abusiva lungo lo scheletro delle mura è come pioggia invasiva, una tachicardia che rimbomba attraverso le pareti ed enfatizza la morte della casa. 
Pensa invece a tutta la morte che vive sotto terra, dice all’ombra riflessa dallo schermo del computer, là dove i suoi capelli sono come rami sottili, deformi, scuri, avvolti da luminescenze boreali.  
Pensa agli organismi che divorano terriccio e si muovono ciechi tra le notti del sottosuolo. 
Ai defunti che si trasformano. A quelli che trovano rifugio nella tua mente arida di ispirazione. 
Sospira, sì, come aveva detto lo zombie, e davvero crede che questo è stato uno degli ultimi sospiri. 
La mano si allunga tra le penombre, fende l’aria densa, artiglia l’interruttore e la stanza socchiude una palpebra di luce. 
Sono pronto, dice.   
Non ho capito, caro; sua moglie dalla cucina accanto, una pausa, il tempo di un altro sospiro; Ah, certo che è pronto, vieni a tavola.
Lui però
mica si alza.
Caro?
E’ vero, si muore in solitudine, tutta la vita è un rantolare verso il vuoto e il movimento è così inesorabile che l’unica difesa è dimenticarsene e fottere l’ansia con il possedere e rincorrere oggetti e persone. 
Oggettipersone. 
Magari si può tentare di allontanare il momento assorbendo le storie di altri, leggere più libri possibile, ingravidare il vuoto esistenziale con centinaia di personaggi e di trame,  per poi declamare di avere vissuto. 
A lui rimane questa strategia, lasciare un romanzo di morte a chi persevera nella vita e ha smarrito la consapevolezza della fine. 
I suoi personaggi vivranno oltre la vita del creatore. 
Saranno le ombre che si rinnovano ad ogni lettura e ancora dopo, perenni sui respiri ultimi di ogni singolo lettore. 
Caro, hai sentito? La cena è fredda. 
Sì, è fredda, ripete lui, tutto è persistenza di caducità. 
I topi, inaspettati, improvvisi, smettono di zampettare.  
Lui, adesso, si alza. 
La solitudine del creatore è necessaria al romanzo. 
La solitudine totale, disperata e priva di consolazione, è l’apoteosi per riempire di narrazione la moltitudine di lettori. 
Appoggia la mano sulla maniglia della porta che lo separa dalla moglie.
La maniglia ha denti di gelo, le dita, indifferenti, stringono.  
La morte della moglie servirà a riempirlo di solitudine e a dargli il dolore necessario a caratterizzare il romanzo. 
Arrivo, 
sussurra. 
Lei lo osserva, il viso bello appena appassito di lato sul collo. 
Prova a sorridere, dai, gli dice e sospira. 
Sospira lei. Sospira lui. 
Sei la signora della casa. 
Beh, le mie amiche direbbero che è un commento maschilista, però; un sospiro, un altro; grazie, caro. 
Un passo, un passo ancora, il corpo di lui che sussurra sul bordo del tavolo, il fruscio delle mani che sfiorano il sudario del cibo in offerta.


Bella questa tovaglia grigia. Non l’avevo notata prima d'ora. 
Ah, era a metà prezzo al mercato, gettata tra cianfrusaglie abbandonate da chissà chi, da chissà quanto tempo; il collo di lei deglutisce, ancora piegato su una spalla; non hai fame?
La nostra casa è il nostro rifugio. 
Lei si morde un labbro, gli occhi attenti, verdi e immobili nei suoi. 
E, vedi, ci suggerisce anche dove saremo dopo. 
Siediti, caro, lei deglutisce, ancora, parliamo mentre mangiamo.
Voglio dire, la casa ci racchiude, ci protegge; lui non si siede; Lo stesso che la tomba fa per i nostri corpi.
Ah, mi sa che stai pensando di nuovo al tuo romanzo, ma a stomaco vuoto viene male, siediti, dai.
Lei fa per accomodarsi, ma l’espressione di lui è una massa oscura che la trattiene, sospesa, a metà della discesa sulla sedia. 
La tomba, cara, la tomba è la fossa. Dunque; lui non si siede; dunque possiamo affermare che la signora della casa è la signora della fossa. 
Silenzio.
Tu, cara, sei la signora della fossa. 
Cosa, cosa dici; un sorriso affiora tra le pieghe del viso bello di lei e subito affonda; mi sembra che stai, ecco, insomma, forse esageri; siediti, dai. 
Vedi come sei brava ad ispirarmi, tu, il mio personaggio. 
Io?
Tu, signora della casa, signora della tomba. Tu, ecco, sei Nostra Signora della Fossa, la consapevolezza di ogni nostra morte.  
Lui, infine, annuisce. Lui che è lo scrittore e trova nel coltello apparecchiato la penna per proseguire il romanzo.
Ispirato e afflitto, si disegna un sorriso.
I denti bianchi, con i canini solo un po’ storti e appuntiti, sono la trama ultima che narra alla moglie. 



[da “Sotto la terra qualcosa campa”, romanzo di Giovanni Sicuranza – altri capitoli al link http://sicuranza.blogspot.it/search/label/Sotto%20la%20terra%20qualcosa%20campa]  

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