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Visite (riedit)


Visite (riedit) - Giovanni Sicuranza 

- da "Sotto la terra qualcosa campa"


“Buonasera”
Lui muove la testa verso il suono delle parole. Piano, però. La morfina non smussa le lame del dolore.
Sospira e subito smette di respirare, perché ha ascoltato il suo grasso gorgoglio e vorrebbe già dimenticarlo.

E poi c’è lei, seduta accanto al letto, sensuale da togliere quel che resta del fiato.

“È già sera?”, bisbiglia e la domanda annaspa in un bolo.

Gli occhi scuri di lei si alzano dal suo viso e vanno alla finestra.

“Dio, come sei bella. Anche senza luce”.

Le mani di lei, lunghe, planano sul suo petto. L’uomo chiude gli occhi.

“Ti faccio male?”

L’uomo tace.

Negli ultimi mesi trascorsi tra le Unità Operative dell’ospedale, le rughe hanno avuto il tempo di scavare la pelle della sua fronte e intorno agli occhi, alle labbra.

Al cuore.

Ma ora, mentre le mani di lei salgono a conoscerne il profilo, il viso diventa morbido.

“Solo tu porti lontano il mio dolore”

“Hai nominato Dio”, un bisbiglio, le labbra che sfiorano il suo orecchio.

L’uomo apre di nuovo occhi, rughe, dolore.

“Zitto” dice lei premurosa, un dito che scivola delicato sulla punta del naso “Lascia perdere, non pensarci. Non ci sono più inganni, sono qui per te”.

Lui annuisce.

“Vieni sempre a trovarmi, sei testarda”, un sospiro, uno solo, breve, “Non puoi, lo sai”.

Non riesce ad aggiungere altro, assorbito dalle labbra che toccano la pelle grinza del collo e la idratano di saliva.

Un’ondata di calore lo lambisce, alla testa, al torace.

E lì si ferma.

Il resto del suo corpo è un oggetto estraneo che ha dimenticato da anni, che non sente più. Eppure ora si sorprende a desiderare che lei continui, fino al ventre. Oltre.

Il dolore è diluito tra le sensazioni che le labbra evocano piano nel suo inarrestabile sfacelo, più di quanto riescano a fare gli oppiacei che riempiono le vene.

Anche se non le sente, intuisce il cammino delle mani di lei.

Chiude gli occhi, cerca di ricordare.

Sente il fruscio delle lenzuola, come il suono di un vento lento.

Inarca la schiena, offrendole il pene, anche se tutto questo accade negli occhi della mente e viene da un tempo lontano, un'era in cui non era paralizzato.

“Non temi che ci vedano?” sorride lei.

“La flebo termina tra un’ora” si sente rispondere lui con voce roca “Per il resto, qui dentro non esisto”.

Lei solleva le lenzuola con un gesto deciso e ondeggia i neri capelli sulle cosce dell’uomo. “Allora facciamo in modo che tu ci sia. Di nuovo”, soffia, calda, prima che la sua bocca si perda alla ricerca del pene avvizzito, e, stanatolo tra le pieghe da decubito del bacino, lo accolga fino in fondo.

Lui non sente nulla, lei nemmeno si muove, ma i ricordi della vita persa, esumati da quel gesto inatteso ed inutile, sono orgasmo della mente stupita.

***

“Vorrei andarmene da qui” sospira l’uomo, caricatura inerte sul letto d’ospedale.

La flebo oscilla sopra la sua testa come una negazione senza appello.

L’infermiere si limita a guardarlo con aria di rimprovero ed esce dalla stanza.

***

La sera arriva, lo sa, ma è sempre più lenta.

L’orario delle visite è terminato da un pezzo, anche oggi vuoto. 

La sua vita è stata un frenetico rincorrere la carriera professionale, un salto continuo oltre legami duraturi.

Fino agli ultimi giorni,

Quando riapre gli occhi la vede. 

Bella ed assoluta. come sempre.

“Sei in ritardo”

“Anche tu” risponde lei con tono materno. mentre si siede accanto al suo viso, sulla sponda del letto, e gli accarezza i radi capelli grigi, “Sei rimasto incosciente più a lungo del solito”.

“Non abbastanza, sembra” mormora lui voltando lo sguardo verso la sagoma in penombra della finestra serrata.

“Non abbastanza, mia attesa”.

La mano ha un fremito e subito cade sul letto, come cadavere.

Lei la raccoglie, la stringe, la sigilla tra le sue. E' una bara che si chiude sul corpo della mano.

“Sei l’unica che mi cerca”, riesce a sorridere l’uomo.

“Non ti abbandono, lo sai”

“Lo so, ma scommetto che poche volte ti sei trovata così in difficoltà come con me”.

Lei non risponde al suo sorriso e appoggia la testa al pallore del petto.

“Non pensarci, tesoro” canta piano.



***

- Vorrei andarmene da qui - sospira - Sono il feticcio voodoo di me stesso, trafitto di iniezioni per prolungarmi l'agonia. 

Il medico termina di scrivere la cartella clinica e in un gesto solleva gli occhi tiepidi sul paziente e gli occhiali dorati sul naso.

- Lo so.

- Lo so che lo sa. Ma intanto rimango.

- Non posso aiutarla. È la Legge.

L’uomo tenta di sollevare la testa dal cuscino, un gesto istintivo di protesta che gli fa dimenticare che, semplicemente, non è in grado di farlo.

. Quale legge? Quella degli uomini, quella divina?

Il medico sgrana gli occhi e abbozza un sorriso tirato.

- Ma che discorsi elevati.

- Ho diritto alla mia vita, non crede? Dovrebbe essere così, almeno. Le basterebbe aumentare la dose dei farmaci.

- Stia zitto!

- Se siamo uomini liberi, dovremmo avere il diritto a scegliere del nostro destino - continua l’uomo e nuove fitte di dolore tentano di farlo tacere - E' il principio di autoderminazione, alla base della libertà, lo conosce?

- E lei conosce la Legge? Se l’aiuto a morire, è omicidio.

- Se mi aiuta a morire, mi da di nuovo il potere di scegliere della mia vita e non di subirla in una pallida copia farmacologica.

Il medico si guarda velocemente intorno, annaspando alla ricerca di frasi da usare in circostanze simili, come gli hanno insegnato i colleghi più anziani, poi, mentre già è in procinto di effettuare una dignitosa ritirata verso altri pazienti, ha un’ispirazione. Sprofonda ancora di più le mani nel camice ed osserva l’uomo paralizzato con aria di studiata comprensione.

- Senta, io mi rendo conto, il suo stato, le sue sofferenze, la perdita della sua dignità dopo l’incidente d’auto, è il mio lavoro, capisco davvero, eppure - si interrompe, stupito.

Il paziente ha chiuso gli occhi.

Occhiali dorati ed occhi tiepidi corrono all’unisono al monitor delle funzioni vitali. Il segnale continua a scorrere, lento, bip bip, monotono.

Bip

L’uomo riapre gli occhi.

- Ecco l’unica differenza tra ora e dopo. Sono solo un cadavere con gli occhi aperti.

Il medico sospira. Estrae una mano dal camice e punta il dito verso il paziente, agitandolo in piccole oscillazioni.

- Molto divertente, davvero, ma sta esagerando. Lei comunque parla, è cosciente.

- E reclamo il mio diritto a morire.

A passi decisi, il medico esce di scena. 

***

Quella sera lei non si vede.

L’uomo attende, immobile tra flebo tenaci, avvolto dal metallico silenzio del monitor.

Ha la vaga sensazione di urinare nel pannolone e capisce che è davvero tardi.

Si volta ancora verso la porta, nonostante le coltellate lacerino la testa.

È chiusa.

Poi, attraverso la parete, sente la notizia dalla televisione e capisce.

Allora chiude gli occhi. 
Non dorme.

***

“Ti sono mancata?”, sussurra lei, mentre gli mordicchia il lobo dell’orecchio.

La mano di lui sussulta, ma non trova rifugio nelle sue.

“Devo andare, scusami. Questa sera è ancora piena per me”

L’uomo annuisce e guarda nei suoi occhi neri.

“Vai, ho sentito del disastro aereo”

Le labbra di lei sfiorano le ferite di lui.

“Domani torno, lo sai, staremo insieme”

“Ma poi devi sempre andare via”

Sul volto di lei nasce un’espressione che l’uomo non ha mai visto, che lo stupisce.

Sembra il lutto di un amore lacerato.

“Sono qui ogni sera, speranzosa, eppure questi uomini mi rendono impotente”

“Sì, è come se violentassero la tua natura”

Lei sorride.

“Però non mollo. Tornerò da te, ogni sera, a coccolarti ed amarti un po"

Le sue mani, che a lungo lo hanno accarezzato, si stringono sul grembo piatto.

“Presto troverai un medico comprensivo, vedrai. E sarai con me, per sempre”

Nuovo silenzio sulla sua scomparsa.

Ancora solitudine. 

Il bip bip del monitor è un singhiozzo ostinato.

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