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Occhi nella nebbia


Occhi nella nebbia – da “Sotto la terra qualcosa campa
romanzo di Giovanni Sicuranza

Il sole che nasce e muore per poi risorgere all'orizzonte è un insulto al buio che attende le nostre vite. 
Eccolo, questo grasso che brucia, se ne sta davanti a me, adagiato sulla linea del cimitero sopra la collina, la linea che separa il mondo dal cielo; è intento ad innalzarsi su di noi, questo sole dal volto rubino, questo abbaglio di vita con la sua supponenza assoluta.
Lo sfioro con occhi socchiusi, annuisco; vorrei dirgli che non lo cercherò più, mai più, perché la mia risposta io l’ho trovata nella nebbia, proprio dove il sole perde slancio. 
Ma è inutile,
non è argomento per un astro che scandisce il tempo in un singhiozzo di universo, che ha comprensione solo per il proprio movimento, che inganna gli uomini di metafisica e speranza.
Io Ho Deciso.
E allora faccio che volto le spalle all’alba, inducendola a tacere, prima che cresca con tutta la sua bastarda poesia.
Osservare gli occhi della donna scolpiti nella memoria, lasciarsi catturare dal suo sguardo che cerca risposte per la mia mente caduta; sono queste le uniche ragioni che mi hanno spinto a restare a Lavrange, anche se questo paese è incapace di spegnere l'urlo dei miei profughi pensieri.
***
Quando la donna iniziò ad interrogarmi, era una mattina di autunno, una mattina distratta, abbandonata sul parco deserto sotto un lenzuolo di nebbia.
Mi ero rifugiata su una panchina di marmo, pesante come i miei pensieri, fredda come i volti della gente che non aveva parole da capire.
Nemmeno la donna parlò, eppure, attraverso i suoi occhi, udii chiara la domanda che aveva accompagnato il mio passato.
Le sue palpebre erano labbra catturate nell'attimo culminante della domanda; le piccole pupille, nere parole fermate dall'eternità.
Un viso magro, sfiorato da lunghi capelli che cadevano su spalle appassite, era la cornice naturale per quegli occhi.
***
Il cenotafio che sorreggeva la foto della donna ne indicava anche il nome, ma, giorno dopo giorno, freschi fiori di campo posti da mani ignote ne impedivano la lettura. 
Mai ho osato spostarli.
Ora che in quella foto avevo trovato una persona in grado di capire le mie inquietudini, mi bastava sedere e abbracciarne silenziosa lo sguardo. 
Sapere come la donna fotografata era morta, perché avevano costruito una lapide commemorativa proprio di fronte alla panchina, era importante, certo, ma solo nella prospettiva di dare risposta ad un interrogativo semplice:
Perché?
Questa era la sua domanda.
Questa era stata la mia domanda.

***

Mentre le foglie volteggiavano stupide nell'aria, mentre la pioggia indiscreta tormentava il mio corpo di strega, o il sole riscaldava la superficialità di Lavrange, sentivo lo sguardo della donna nutrirsi del mio passato e invocare una soluzione nel gesto che aveva segnato per sempre il mio destino.
Eppure, mi dicevo smarrita, poteva la mia risposta essere anche la sua?
Con questo dubbio tornavo nell'umido monolocale e chiudevo la porta sui silenzi bestiali del paese.
Il richiamo di quegli occhi infranti entrava ogni volta con me e al mio fianco, sul divano, crollava.
Così diventava mio amante e pretendeva notti insonni.
La mattina dopo mi nutrivo di carne cimiteriale, non perché la gradissi, però, insomma, qualcuna di noi a Lavrange doveva continuare il mito della strega, di Nostra Signora della Fossa; poi mi affrettavo nel parco, mi sedevo sulla panchina e nella foto nuda di colori ritrovavo la sofferenza della domanda:
Perché?
Sospiravo, una lacrima dopo l’altra guardavo la donna cenotaffica e sospiravo.
Non so perché, mia cara; credimi, credimi, proprio non lo so.
So solo questo, un giorno ho compreso che con i perché non si cambia realtà. 
Con i perché, mia cara, semplicemente si continua a morire.
***
Questo cercavo di rispondere alla donna della foto, eppure lei insisteva a guardarmi con occhi supplicanti
Perché?
con quello sguardo da cenotafio assoluto, che mi seguiva ovunque, 
dolce e terribile, nella notte e nel giorno, 
nella veglia e nel sonno.
I ricordi vestiti a lutto reclamavano azione per la donna, per me, per noi prigioniere di una domanda tanto forte da renderci vittime della vita.
Vagavo nell'incubo delle vie di Lavrange, a volte incontravo una persona straniera e ne diventavo io stessa l’incubo terminale, così, tanto per perpetuare il mito di Nostra Signora della Fossa, però, alla fine, la meta era sempre il parco, dove mi risvegliavo seduta sulla panchina per rassicurare quello sguardo. 
Aspettavo solo un segno. 
Chi poteva parlarmi della donna?
***
Le persone incontrate nel parco mi evitavano. In realtà vedermi ogni volta immobile, catturata dalla foto del cenotafio, doveva spaventarle. O forse si era sparsa la voce che la strega era tornata, che la Fossa era di nuovo vorace e attendeva di essere riempita di vita, chissà. 
Non aveva importanza.
Notavo invece con interesse i fiori che ornavano la foto, sempre presenti. Sempre freschi. 
***
Accadde tra la nebbia e i silenzi.
Accanto a lei vidi un’ombra inginocchiata.
Mi avvicinai in silenzio e l'ombra prese la forma di una bambina che donava nuovi fiori alla grigia pietra del cenotafio.
Non mi udì arrivare. 
Mi sedetti, stupita, mentre mi chiedevo se poteva essere lei la vera risposta cercata dalla donna nel cenotafio. 
Sospirai, schiacciata dal peso del compito che in tal caso mi avrebbe aspettato, e la bambina si voltò.
Nel suo viso d’infante lo spavento crebbe veloce. 
Mi affrettai a sorriderle. Sembrava così tenera, la sua 
carne. 
- Non scappare, ti prego.
Lei si guardò intorno, smarrita, poi i suoi occhi tornarono a me, grandi, più caldi di ogni religione.
Fu un sollievo scoprirli innocenti.
- Mi dispiace averti spaventata.
Sentire la mia voce nascere dagli occhi della donna sul cenotafio, e non dalle mie labbra, mi sembrò naturale. 
La bambina continuava a guardarmi, il respiro lieve, forse più rilassata dal mio tono.
- Sei tu che porti i fiori, vero?
Boccoli confusi calarono come un sipario sul suo viso. Come a contorno di quella carne
fresca.
Ricordo con quale violenza deglutii.  
- E' un gesto molto bello.
La bambina rifugiò lo sguardo sulle sue scarpe, nere come i capelli e il largo cappotto indossato e l'atmosfera che vestiva il parco e la mia fame repressa. Poi parlò, piano, delicata, e la sua voce giunse sulle onde della nebbia.
- Lei mi voleva bene. Voleva bene a tutti i bambini che giocano nel parco. Era divertente con noi. Ma aveva sempre quell'aria triste.
Sentii il sorriso di un figlio perduto affondarmi nel cuore. Dimenticai la fame e, che il sole sia maledetto, persino di essere la Strega di Lavrange.
Un solo istante. Un solo dilaniato istante.
- Si sedeva sulla panchina, proprio dove sei tu adesso, proprio bella come sei tu adesso, e a volte ci portava dei regali e cibo per gli scoiattoli e
un singhiozzo venne a scuotere il suo piccolo corpo 
-  Mi raccontava le fiabe, sai? I miei genitori, loro no. Lavorano, non hanno mai tempo per me. Quando tornano a casa sono stanchi e io me ne vado via, su Facebook. Le sue fiabe erano un'altra cosa - un nuovo singhiozzo. 
Sussultai con lei, oltre il suo volto c’era il fantasma del mio bambino, riverso sulla rampa delle scale, il collo spezzato, e c’era il sorriso solare di mio marito, di quell'uomo nemico, che mormorava che era stato un incidente, solo un ridicolo incidente.
- Come è morta? - chiesi e già conoscevo la risposta.
La bambina sollevò lo sguardo, fissò un punto invisibile oltre l'uscita del parco. La sua voce era una cantilena perduta.
- Il marito è sempre al bar, lì, di fronte. Ci sta tutto il giorno da quando la signora non c'è più, raccontano che piange, però secondo me non è vero, perché una sera fingevo di dormire e ho sentito papà e mamma. Dicevano che lei è morta per colpa sua. La picchiava. Lo so che fa male, papà lo fa a volte anche con me e la mamma. 
I suoi occhi cercarono i miei. 
- L'abbiamo voluta ancora con noi, qui nel parco, le portiamo i fiori. Era tanto buona, ma suo marito la picchiava. Perché?
Il vento si sollevò a rapire le lacrime che fuggivano dalla bambina.
- Tu sai perché, signora? 
Rimasi in silenzio, incapace di dare voce alla tempesta dei miei sentimenti, e la piccola si allontanò, rapida.
- Che strega sei se non sai rispondere. 
La guardai, muta, fino a quando la nebbia non la cancellò, poi mi alzai e mi avvicinai alla lapide.
Perché?
ripeterono gli occhi della donna.
Perché?
Annuii.
Avevo la risposta. Ora ne ero certa.
***
La nebbia si è diradata, la gente è tornata al parco e mi evita. Bisbiglia.
Il sole cade spento sulle case di Lavrange.
Ho sposato un mostro che mi ha picchiata, violentata, resa schiava della sua stupida volontà. Quando l'ho conosciuto sapeva di amore-finché-morte-non-vi-separi, ma dopo il matrimonio si è trasformato. 
Si è putrefatto.
Il mio psichiatra dice che può capitare, l'importante è trovare la forza di rinascere.
Rientro nelle statistiche.
Ogni volta che alzava le mani su di me, ogni volta che violava il mio corpo, ogni volta che mi vietava di uscire dalla casa dove ero reclusa, a nutrirmi di avanzi di carne, e mi urlava 
strega, 
sei solo brutta come una fottuta strega,  
ogni volta mi chiedevo
perché?
Per tanti anni questa domanda è stata la mia compagna.
Poi è nato mio figlio, il figlio mio bello, e lui con uno schiaffo, un solo schiaffo, ha spezzato il suo collo e la mia schiavitù.
Ho smesso di chiedermi perché.
Ho preso un coltello da cucina e ho aperto in due quel torquemada nemico.
L'ho colpito per ogni istante in cui aveva bruciato la mia vita, per ogni giorno in cui non sarei più cresciuta con mio figlio.
Per tredici anni mi hanno rinchiusa in una clinica, ho ascoltato un sacco di stupide chiacchiere su come uscire dalla mia ossessione e ho visto uomini e donne vestiti di bianco, splendere come raggi di sole per recitare la fiaba di chi avrebbe dovuto aiutarmi.
Quanto tempo sprecato. 
La risposta alla domanda è immediata, 
la risposta alla domanda è andare oltre la domanda.
Questo paese mi rifiuta e io lo consumo come un rifiuto.
Io so cosa va fatto.
Ora e dopo. 
Ora e sempre.
Il contatto della lama del coltello, nascosto nella tasca del saio, è una sensazione intensa, la assaggio dopo anni di solitudine.
C'è un solo bar di fronte al parco, c’è un uomo che si intrattiene a bere.
L'insegna luminosa è vuota come l'espressione dei clienti che vedo entrare.
Il sole che scandisce il tempo non ha senso. 
Io aspetto.
Mi scansano, tutti, rapidi, e ad ognuno di loro io sorrido. 
Ciao, maschere sociali, Nostra Signora della Fossa è tornata.


[dal romanzo “Sotto la terra qualcosa campa”, Giovanni Sicuranza]

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