Ogni oggi come questo, settimana
sopra settimana, c'è un treno regionale veloce, che ansima, scricchiola e dal
binario sette mi porta in un mondo contadino.
Questa mattina, alle sei e
trenta, l'ho trovato che giaceva lungo il binario tre.
Silenzioso.
Mi sono fatto penombra, confuso
tra sedili assenti. Ho atteso, nervo scoperto dall'inquietudine.
Un treno che persiste nel vuoto è
come una casa disabitata e fragile.
Questo treno non è più partito.
O forse, ho pensato, forse è solo
arrivato tardi.
Così tardi, così oltre,
così oltre la mia vita.
Binario 3
Io ricordo questo di mio nonno.
Mattina sopra mattina, umida d'inverno e umida d'estate, lui si alzava,
penombra di silenzi, e svaniva. A volte mi capitava di vederlo aprire la porta
e diventare sottile, sempre più, surreale come un fantasma mentre l'uscio si
richiudeva alle sue spalle; succedeva quando l'ansia di un compito di
matematica, quella per un amore irraggiungibile, mi svegliavano prima di andare
a scuola e accadde spesso l'anno in cui lui svanì. A casa non parlavo dei miei
dolori, i miei si interessavano a me solo se rispondevo che tutto andava bene,
e mio nonno, lui, aveva gli occhi lontani.
Però li sentivo, mamma che
sospirava, papà che borbottava. Non per me, per il nonno.
"E' sempre peggio",
"Un giorno dovremo chiamare i carabinieri e forse nemmeno lo
troveranno", "Ma se va sempre lì, sempre in stazione, è questo che mi
tormenta".
Era l'anno in cui mi dichiarai ai
miei, l'anno in cui mio padre divenne mutacico per la vergogna di un tale
figlio, l'anno in cui mia madre mi tenne con la forza con cui si deve tenere un
cane indesiderato, che non si sa a chi regalare, che si teme di abbandonare per
strada solo per paura delle sanzioni. Il 2 novembre di quell'anno, mio nonno
non tornò a casa. All'ora di cena i carabinieri vennero davvero, entrarono
dalla porta che era stata l'ultima uscita di mio nonno e dissero che l'avevano
trovato, trenta chilometri lungo un binario. Il suo ultimo percorso.
Io già lo sapevo.
Aspettavo l'alba nel pianto,
perché Lorena mi aveva confidato la cotta per il mio compagno di banco, proprio
per lui, il mio segreto amore, e le lacrime sono silenziose solo quando non si
vuole vederle.
Nonno si affacciò nella stanza,
un attimo prima di uscire, e si sedette accanto a me; ce ne stavamo così, fianco
a fianco, a fissare l'uscio di casa, sulla sponda del letto, come cercatori di
orizzonti sul pontile di un molo. Pensai che dovevo nascondergli il dolore, che
tanto non avrebbe compreso, ma le sue mani screpolate mi graffiarono il viso,
le loro rughe accolsero le mie lacrime e mi ritrovai dentro i suoi occhi.
"Non passa mai", disse,
non so se a me, a se stesso o a entrambi, "Il dolore si trasforma, non
svanisce", e i suoi occhi erano neri ed erano bui come gallerie,
"Torno da mia moglie, dai miei amici, tutti portati via dal binario
3", così disse, lento, un tratteggio di sorriso sulle labbra,
"Eravamo giovani, troppo per credere di non sopravvivere alla
deportazione. Invece sono tornato, io, solo", e mi guardò, mi guardò
davvero, "Oggi è il giorno dei morti, lo sai?", sì, gli risposi con
la testa, adagio, perché avevo paura che scaglie delle sua pelle secca mi
ferissero le guance, lo so, nonno, "I treni portavano morti viventi, il
binario 3 era un percorso di morte, lo sapevamo tutti, ma non ci credevamo. Non
potevamo crederci. Ora che anche il binario 3 è morto, bisogna rendergli
memoria", e si alzò dal letto, le sue mani mi abbandonarono, "Nessuno
pensa a commemorare i binari morti nel giorno dei morti".
Io lo guardavo e in quel momento
capivo perché era sempre stato curvo, pesante. Ma capivo anche perché non si
era mai piegato alle proteste dei miei genitori, mai, giorno dopo giorno
vagabondo della stazione, del binario 3.
"Rendi il dolore parte del
tuo orgoglio", furono le sue ultime parole. Ne sono certo, le più vere dei
suoi anni a casa nostra.
Giovanni Sicuranza
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