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Farfalle


Farfalle - Giovanni Sicuranza

Terzo giorno dentro la stanza dell'Hotel delle Farfalle, Conca dei Lepidotteri sull'Oceano Pacifico. Ah, sì, verso fine agosto, credo il 22 o il 23, il calendario sul cellulare non funziona, cioè, a dirla tutta, non trovo la più batteria e lo schermo è un buio persistente, nemmeno ci avessi riversato dentro la mia angoscia. 
La batteria, l'ho cercata durante la prima notte, ora passa ora, dentro la tazza del water, tra gli indumenti sporchi, ovunque, ovunque tranne in un posto, poi ho rinunciato. Forse l'ho buttata per sbaglio, ricordo di averla estirpata dal cellulare, violentata, maledetta, perché si spegneva subito dopo l'accensione, anche se era carica a tacca cinque, un cinque illuminato di verde speranza; adesso, però, i particolari della mia memoria giacciono sepolti chissà dove. Adesso nemmeno ci penso, insomma, me ne sto qui, seduto accanto alla porta della stanza, la schiena intorpidita sullo stipite, e bevo sorsi di un succo di frutta dal frigo bar, quello che adesso è diventato il deserto bar, senza contenuto, bevo piano piano questo liquido pompelmoso e acido, e cerco di sentire dentro il silenzio. 
Nessun passo, nessuna parola straniera, ora che sarebbe così desiderata e familiare, nessun fruscio di ascensore che si apre e chiude. Che apre e chiude le fauci. 
Le Farfalle sono morte.

Di solito mi piace attardarmi nelle stanze degli hotel, chi se ne frega di quel che c'è da vedere in giro, tanto, dico, aria, terra, acqua, fuoco, li ritrovo a ogni parte del globo, sempre loro, i quattro elementi, certo in combinazioni diverse, ma, vista da questa prospettiva, non è per le escursioni o per le spiagge che parto, lontano, lontanissimo. 
Parto per sbirciare. Chiedo una stanza non in alto; primo piano, al secondo va ancora bene, l'importante è la vista sulla spiaggia o sulla strada di maggiore passaggio pedonale; mi metto alla finestra, scosto appena la tendina, ne divento simbiosi. 
Passo ore a conoscere alieni. 
Osservo le persone, i vestiti, le espressioni, come si muovono, se sono sole, in gruppo, se ci sono famiglie e come si comportano con i  loro bambini e se questi bambini sono educati. 
Osservo, assorbo. 
E' appagante questa conoscenza del mondo, vedere senza essere visti, quando gli altri sono nudi delle maschere ridondanti cordialità che indosserebbero ad un incontro reale, per quanto fugace. A volte li fotografo, questi miei paesaggi antropomorfi, altre li filmo; se c'è qualche donna bella, se ne ho voglia, me la prendo masturbandomi.

Queste sono le vacanze che adoro. 

Loro li ho visti subito, appena affacciato alla mia nuova finestra. 
Erano come ragni scuri a spasso tra formiche. Si muovevano piano, ma fendendo la folla, senza accennare a scostarsi, spalle dritte, schiena dritta e la testa, solo la testa, all'unisono, si voltava appena, a destra, a sinistra, si fermava, poi sinistra, poi destra.
Predatori privi di filtri. 
Due passi dopo avevano avvicinato una ragazzina, ho visto la donna che le accarezzava una guancia e lui che le cingeva le spalle con la zampa pelosa, poi sono spariti, insieme. Dopo nemmeno un'ora erano di nuovo in giro. 
La donna saltellava, lo zainetto colore buio adagiato sulle spalle, con un'enorme farfalla rossa che apre le ali, anche se, invischiata nel  tessuto, mai potrà volare. 
Lo zainetto, prima, lo indossava la ragazzina. La ragazzina che non c'era più. 
Lui non sembrava prestarle attenzione, camminava piano, pesante, a penetrare tra la gente, poi si è fermato, ha atteso la donna e ha sollevato un dito verso una coppia di giovani. Fidanzati, sposi, amanti, non so; freschi comunque, visto che si baciavano in continuazione, proprio come nei primi tempi di una relazione; è una questione genetica, sembra; cioè, lei tenderebbe molto a baciare lui per assicurarsi che sia l'uomo giusto alla sopravvivenza dei geni, un modo per gettare garanzie oltre la scopata, insomma, e questo succede a livello inconscio, che il desiderio sia di una notte o di un per sempre; ecco, sì, non che abbia esperienza di baci esplorativi, però così ho letto da qualche parte. 
In ogni caso, quelli si scambiavano lingua e saliva a ritmo di catena di montaggio e all'improvviso arriva l'omone, a malapena contenuto in una di quelle camicie svolazzanti, tipo hawaiane, allegre di fiori, solo che la sua era nera, così nera che nemmeno lo schermo morto del mio cellulare riesce a darne un'idea. A seguire, lei, zainetto da adolescente che saltella sulle spalle minute, e tutti insieme subito a scambiarsi gesti lungo le vie da raggiungere e a fare sì sì sì con la testa, e tutti sorridono, saturi di buona socialità, fino a quando la piccola donna si porta una mano alla testa, testa nera, mano bianca, e barcolla; fino a quando l'omone, premuroso, tenta di sorreggerla, e intanto scuote la testa e parla con la coppia; fino a quando la coppia, che si muove come un unico  corpo, proprio come fa il bestiame da macello quando è condotto alla morte, non apre le portiere di un'auto e incita l'omone a salire con la donna. 
Partono. 
Stringo i denti. 
Aspetto. 
Aspetto. 
Apro il frigo bar a fianco alla finestra. Due confezioni di acqua naturale da mezzo litro, due succhi di frutti, uno al pompelmo, l'altro al mandarino. Non ricordo cosa prendo. Bevo e aspetto, il cuore che mi va a mille, la gente che mi scorre sotto e che nemmeno più vedo. Forse dovrei chiamare la polizia o almeno qualcuno dell'albergo. Ma, poi, no, che cosa posso dire, che due coppie di turisti si sono allontanati in macchina, perché una donna stava male?
Uh, la ragazzina di prima. Ecco, magari è stata lei a regalare lo zaino alla donna, magari lo ha venduto e ha fatto pure un buon affare, magari. 
E mi arriva una doccia fredda, inaspettata, la prima da quando sono arrivato; fredda. 
La macchina torna, sbuca da un angolo cieco della mia finestra, da dietro l'hotel, presumo, e parcheggia proprio dove si trovava prima. 
Escono l'omone e la sua gracile donna. Nessun altro. 
Da qui tutto si fa più confuso; succede a cogliere particolari dissocianti in un solo attimo, succede che la mente se ne va altrove, altro viaggio, ti saluto, stammi bene, corpo, se riesci.      
Il corpo non riesce, non il mio almeno. 

Credo di avere fatto un balzo all'interno della stanza, ma solo appena dopo che l'omone e la donnina hanno portato i loro occhiali scuri sopra di me, lungo di me. Solo un attimo dopo che lei mi ha fatto ciao ciao con una mano lunga e bianca, troppo bianca, si notava anche da qui, per come il sole le rimbalzava contro. 
Ho estratto la batteria dal cellulare, convinto di rimetterla subito dentro per farla andare meglio, poi, non so, sono corso fuori e il corridoio era un pendio lungo, pieno di farfalle enormi alle pareti, che sembravano scorrere veloci con me, ali verdi, ali rosse, ali nere. Ricordo l'ascensore, le porte chiuse, grigie, come l'ingresso marmoreo di un cimitero, di un forno crematorio, anzi; sudavo. 
Quei due hanno impiegato davvero poco tempo, pensavo, le parole di corsa, una addosso all'altra, appiccicose, invischiate di angoscia, troppo poco tempo per sbarazzarvi di qualcuno; quei due devono avere un rifugio qui vicino. 
Poi mi sono accorto del silenzio intorno. Un silenzio immobile. 
Omicidio del suono. 
Forse il loro rifugio è proprio questo albergo.
Ehi, ho detto, la voce caduta sul tappeto, blu, come l'oceano da cartolina di questi luoghi; ci ho saltellato sopra, immaginando che gli abissi si aprissero per prendermi, e intanto, sì, ridevo, secco, spezzato, e, ehi, aiuto, ho detto, solo che la mia voce ha urtato i disegni alle pareti, si è adagiata sulle ali enormi delle farfalle, flebile, e lì è morta. 
L'ascensore rimaneva serrato, ostile. Ho premuto  ancora, ho acceso di rosso il suo occhio fisso, idiota. Niente. 
Le scale, un piano solo, le scale alle mie spalle; piroetto su me stesso, ma sono un tipo da osservazioni alla finestra, io, mica da gesti atletici; credo di essere rantolato a terra, no, annegato nelle onde del tappeto, deve essere così, perché mi sono subito smarrito in un'incoscienza nera.

Adesso sono chiuso nella stanza. 
E' il terzo giorno, lo so, perché ho deciso di bere una bottiglia a ogni arrivo del buio. 
Una sorso, a spezzare il silenzio, deglutisco, mi ascolto e poi un'altro sorso, deglutisco, una goccia e questa è l'ultima; no, mi confondo, forse manca una bottiglia, non so. 
Non mi muovo, è certo, tra me e la finestra ho messo un tabù, nemmeno mi avvicino per cercare la batteria del cellulare, nemmeno per vedere le stelle spezzare la notte.
Sono solo schiena, io, schiena contro porta; se mi addormento e quei due tentano di entrare, col cavolo. Insomma, qualcuno in questo hotel deve essere rimasto, verrano a cercarmi presto. Devo attendere sempre meno, man mano che passano le ore, giusto? 
Un sorso, deglutisco.  
Forse sono rimasto solo con le farfalle; tento persino di sorridere al pensiero; tento, appunto; niente di più appropriato, chissà dove l'ho letto, le farfalle sono il simbolo del passaggio dalla vita alla morte.  
Un altro sorso, deglutisco.
No, calmo, mi sono registrato, qualcuno sa dove mi trovo. 
Deglutisco. 
Già, mi sono registrato?
La bottiglia è vuota.

Tua figlia è ancora a letto, Mama, dice che le fa male la schiena. 
Mama fa pazienza con le spalle gracili; nostra figlia dovrebbe imparare a non portare tutti questi giochi a scuola, Papa, borbotta, e continua a svuotare lo zaino, mano lunga e bianca dopo mano lunga e bianca; sono stata male anch'io, guarda un po' se dovevamo disturbare i nostri clienti, appena arrivati.
Papa ciondola la mole di muscoli adiposi, esce dal bancone della reception e si porta davanti a Mama. Lei solleva lo sguardo dalla zaino a quelli del marito. 
Sono clienti giovani, Mama, saranno già in spiaggia a divertirsi e poi, per ringraziarli, gli abbiamo riportato l'auto al parcheggio; gratis per due giorni, mi sa che sperano ancora in un tuo malore. 
Lui sorride, come un budda compiaciuto, le mani poggiate sulla prominenza del ventre. Lei mostra i denti consumati, le rughe profonde fino alle gengive, e questo è il suo sorriso; poi volta la schiena al marito e attende il cammino delle sue mani lungo l'aridità della pelle.
Mama e Papa Grooming stanno bene e fanno stare bene gli ospiti del loro albergo, dice la voce grande di lui. 
Uh, geme la donna, il collo appena inarcato alla prima carezza, però quello che è venuto qui qualche giorno fa, come si chiama. 
Non lo so, Mama, non lo ricordo.
Sì, questo volevo dirti, Papa, nemmeno io. Non l'ho più visto da allora. Ha messo il cartello davanti alla porta, non vuole essere disturbato, ma forse è meglio salire, a controllare. 
Uh, uh, fa Papa Grooming, spulciando la schiena della sua femmina, questo è relax. 
Dico davvero, Papa; non è sceso nemmeno a mangiare. 
Le dita grosse di lui si fermano, sospese, sorprese, ma è solo un attimo, perché lei china subito la schiena in attesa.
Sai cosa penso, Mama, che viaggiare allarga la mente e che dovremmo farlo anche noi, ogni tanto, ecco; ormai possiamo permetterci di chiudere l'Albergo delle Farfalle prima del tempo.
Forse, Papa, ma dovremmo viaggiare davvero; se facciamo come il nostro sconosciuto, lassù al primo piano, altro che allargare la mente, dice Mama, non ha nemmeno una donna nella stanza. 
E Mama e Papa Grooming ridono insieme, espirano e inspirano al ritmo di un solo diaframma, come sempre in cinquant'anni di matrimonio.     

[immagine: Igor Morski Surreal art butterfly]

Nota: credo di non svelare nulla di nuovo, soprattutto per chi scrive: anche per me quasi sempre i racconti nascono da un particolare apparentemente insignificante che osservo con uno o più sensi; "Farfalle" è nato perché nel luogo in cui mi trovo c'è un tormentone sonoro con un ritornello leggero e ben ritmato, che io, storpiando, e pensando alla magnifica e rilassante abitudine del grooming delle scimmie antropomorfe* (la mia lettura attuale è il saggio "Il bonobo e l'ateo" di Frans De Waal), storpio in "Mama e Papa Grooming"; poi succede che mi perdo nella Valle delle Farfalle e, insomma, mentre me sto seduto su un tronco ad aspettare la guida, viene fuori questa storia, più o meno simile a come l'ho scritta. Più o meno. 

*anche noi, scimmie  antropomorfe, pratichiamo il grooming, pur adattato alla nostra socialità; durante la colazione, il pranzo, la cena, in una sala comune come quella di un albergo, osservate le madri con i cuccioli umani in braccio; noterete che "spulciate" tra i capelli, lungo il collo, la schiena; relax e affettività tribale.  

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