Specchio delle nostre brame - Giovanni Sicuranza
Quello sguardo, io non lo sopporto più; è lungo, penetra come un ramo, mi uccide, è gremito di spine.
Non pensarci, le dico, la abbraccio e la stringo al petto mio, adesso non pensarci.
Invece lei ci pensa, piange, e, quando infine si placa e diventa ombra nella notte, accanto a me, in questo nostro letto di rughe, il suo respiro è caldo, libera rantoli e bolle di paura.
Mai ho amato così una donna, penso, lo penso fino a quando la campana della chiesa batte tre rintocchi, lenti, lunghi, sul cimitero dei nostri giorni, mai più amerò così un dolore di donna.
Poi mi alzo e copro gli specchi di casa con drappi neri. Riflesso dopo riflesso, li annullo nel buio del tessuto, li trasformo in buchi neri dove l'orizzonte degli eventi è la speranza di un'agonia serena. Faccio questo ogni notte, cauto, silenzioso, mi chiedo se basterà a fermare Eleonora, il suo cercarsi nello specchio, questo suo ghermirsi con gli occhi nei suoi occhi durante il giorno. Forse si sveglierà tanto debole da non provare nemmeno a sollevare il panno, e, magari anche solo per un attimo, perderà la morte.
Quando ho finito, torno al suo fianco, le cingo la vita con il mio braccio integro. Non ci sarà nessuno sguardo a fissarti dall'altra parte, tesoro, nessuna consapevolezza del giorno dopo giorno, di questa morte che avanza sulla devastazione dei nostri corpi. Lei si agita, scotta, brucia, consuma ossigeno e carne e non smette di morire.
L'orologio della chiesa batte cinque rintocchi, cinque echi vuoti tra miliardi di virus e batteri. Stringo a me Eleonora, chiudo gli occhi, provo a ignorare l'alba che filtra dalle persiane, fende l'aria viziata da medicine e sangue, e sussurro che va tutto bene, non so se a lei, se a me, forse così, tanto per non urlare al giorno che si allarga sulla pandemia del nostro mondo.
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