Schiavi - Giovanni Sicuranza
Tutti conosciamo più che bene, dall'autopsia della nostra esperienza quotidiana diretta, le virtù benefiche e terapeutiche del mercato dei beni di consumo. Tuttavia, conosciamo altrettanto bene, scomodo compagno, il senso di colpa che deriva dal non riuscire a trascorrere abbastanza tempo con le persone più care e vicine. Una sensazione che la frenesia della nostra esistenza ha reso semmai più comune. Quasi tutti siamo schiacciati dalle preoccupazioni che sorgono dalle relazioni quotidiane sul lavoro; le portiamo con noi, ovunque, nei computer, nei cellulari, a casa, a letto, in bagno, durante le gite dei fine settimana, in vacanza.
Rileggete tutto, adesso, forse è da brivido l'alienazione, l'arido orrore di tutto questo. In un mondo di produttività, dove trovate sempre qualcuno disposto a lavorare nel tempo per voi stessi e per i vostri cari, per invadere il vostro respiro, abdicare significherebbe essere "fiori gioco".
L'ufficio è sempre a portata di cellulare, di SMS; quando vi annunciamo un sistema per la videoconferenza, non solo vi dicono che non avrete nemmeno più scuse di essere assenti durante l'extra lavoro, cosa che già avviene, ma vi dicono che anche in cesso dovrete essere presentabili. Vi dicono, in altri termini, wow, abbiamo trovato un altro tassello con cui seppellire il tuo tempo!
Noi, perennemente connessi, in un modo professionale di pressioni e produttività accelerata, non abbiamo scuse per non lavorare anche sabato, anche domenica. L'orario di chiusura del lavoro si sposta sempre più in avanti, fino ad annichilirsi. C'è chi, piuttosto di non lavorare, accetta questa schiavitù, chi, a lungo andare in questi ritmi, rende arido se stesso. Il lavoro prima di tutto, anche a costo di lavorare in ambienti che, si sa, sono a grave rischio salute (magari non solo per se stessi, ma anche per i figli); intendo, non il lavoro per vivere, ma il lavoro per consumare, per essere sovrabbondanti di acquisti.
Dunque, per ristabilire i rapporti erosi con i nostri cari, non ci resta che comprare tali rapporti. Il mercato dei beni di consumo, che non risolve certo il problema, ci aiuta a mitigare i sensi di colpa. Ci insegna che i doni materiali possono accorciare le distanze, anzi, magari più un bene è costoso, o all'ultima moda, più siamo presenti agli occhi di chi ci attende. Fare shopping diventa dunque una sorta di atto morale. Alleggerire il portafoglio o la carta di credito è un buon sostituto all'abbandono e al sacrificio del non esserci. L'effetto collaterale è questo: il regalo è un feticcio di durata momentanea, al quale subentra a breve il rinnovo del senso di colpa, e, dunque, da sostituire con altri analoghi feticci.
In questo senso, il mercato di consumo, infine, non aiuta a risolvere, bensì contribuisce ad inaridire, a lungo andare, i legami tra le persone; a radicare il pensiero che anche l'affetto sia commercio e consumo. Ed è così intensa tale prospettiva, che l'applichiamo anche a noi stessi, frustrati da una vita sempre più stressante sul lavoro (sono assente-produco-compro per compensarmi-spendo-aumento il lavoro per rifarmi della spesa, per comprare ancora, all'ultima moda, per non essere scavalcato da tutti gli altri che agiscono come me).
Pensateci: nei rari momenti in cui ci ritroviamo per noi stessi, la falena dell'acquisto consola; quante volte ci siamo detti, entrando in un negozio, "ecco, questo me lo merito"?
Non "ecco, mi fermo, stacco tutto, mi riprendo".
L'acquisto dell'oggetto è la scorciatoia migliore che conosciamo, che desideriamo, per restituirci dignità.
P.S.: ora, scusate, finisco una relazione, prima di portare mia figlia al centro commerciale, regalarle il set di bambole-vampiro promesso, quello "de-luxe", bare incluse, che abbiamo visto stamane alla tivvù; dopo riprendo, dopo la lascio sola nella stanza, perché potrò continuare a lavorare, tranquillo con me stesso.
[delirio ispirato ai saggi di Zygmunt Bauman: "Vita liquida", "Consumo dunque sono", "Danni collaterali"]
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