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12 [riedit]


12 - Giovanni Sicuranza

Queste due unghie che artigliano il numero dodici. Con le dita che partono dal centro del quadrante bianco. E che sono lunghe, come lame da caccia. E nere, come carne putrefatta. E bitorzolute, come deformate d’artrite.

Non riesco a smettere di fissare il loro potere sulla mia volontà. 

Si sono avvinghiate sul numero dodici e da lì non si muovono più. Sfidano il mio sguardo, tormentano il tempo, perché non si spostano. 

Lancette aliene del mio orologio da cucina.

È mezzanotte. 

È il mio brivido. 

Perché mezzanotte in punto non è più il giorno prima e non è ancora il giorno dopo; mezzanotte in punto è un orario di sospensione. Una sospensione che non passa. 

Mi alzo dalla sedia e muovo un passo verso l’orologio aggrappato alle crepe del muro di fronte. Un solo passo. 

- Dove vai? – sospira lei.

Mi blocco, ma non riesco a guardarla. I miei occhi sono dentro le lancette, sul numero che non cambia, e comunque non ho più bisogno di guardare Aurora, so già tutto di lei. 

So di lei com’era il giorno in cui l’ho conosciuta, giovane, universitaria, piena di carne e sangue, e so di lei com’è oggi, moglie, disoccupata e svuotata dalla malattia. Aurora è il tramonto della nostra speranza, è carcinoma avido che divora i tessuti polmonari e ne succhia il fluido. Aurora è già morte che avanza dall’interno del corpo, giorno dopo giorno. 

- Dove vai?

Gli occhi sulle lancette, i piedi fusi nel pavimento di marmo. 

- E’ mezzanotte – mi sento rispondere, piano, lontano. 

Silenzio. 

Muovo un altro passo verso l’orologio. 

- Dove vai?

- Te l’ho detto, è …

- Non più.

Sono tentato di guardarla per chiederle cosa intende, ma tanto so anche questo. Ogni mezzanotte è lo stesso discorso.

- E’ sempre mezzanotte, Aurora – osservo, le lancette che tacciono sul dodici. 

- Non più – ripete lei, decisa. O forse mi sembra che lo dica, forse ho solo sentito un rantolo cadere dalle sue labbra e portarsi dietro un altro pezzo di vita.

- Non più – sottolinea ancora, bloccandomi persino il respiro. È un affondo nuovo nella nostra schermata di parole, un tocco inaspettato. 

Soffio via la tensione, mi riprendo il respiro. Scuoto la testa. 

- Come vuoi tu, Aurora – mi arrendo. 

Muovo un altro passo verso l’orologio a muro, poi ancora un altro e un altro. Quando arrivo alla parete è come se avessi percorso un chilometro a piedi. Sudo, persino, solo che è un sudore freddo. 

Le mie mani sono pesanti e tramano, mentre le porto verso le lancette. 

Chiudo gli occhi e sospiro, sfinito. Le mani crollano lungo le gambe. 

- Non so se riesco … - inizio, aspettando che Aurora sia comprensiva. Ma lei tace e il suo silenzio riempie la cucina, la casa, il mio mondo e mi fa capire che non avrò altri aiuti. 

Allora faccio violenza sulla mente e costringo le mani a uno scatto veloce, perché mi rendo conto che è il solo modo per vincermi. 

***

Cinque anni fa avevo deciso di smettere di fumare. Aurora me lo chiedeva da mesi, infastidita dall’odore con cui impregnavo ogni poro del nostro vivere; una richiesta rivolta in modo delicato, ma continuo. 

Quando infine mi ero deciso, non l’avevo fatto per lei, ma per il fumo che mi stavo ostruendo il naso, giorno dopo giorno, uccidendo i peli dell’olfatto. Non male per uno che fa il sommelier e aspira - scusate il gioco di parole - ad essere promosso dalla critica. 

Così avevo dapprima provato riducendo le sigarette un po’ alla volta, ma niente da fare, anzi, l’attesa della prossima sigaretta mi rendeva nervoso. Vedevo la mia carriera smarrita in un banco di fumo, mentre le mie scenate d’ira graffiavano il rapporto con Aurora. 

Fino a quando non ho capito e ho detto basta. Un basta brusco, totale, rapido. Zero sigarette. Da allora non ho più fumato. In tempo per la mia carriera, tardi per la vita di Aurora.

***

Mi servono entrambe la mani per afferrare le lancette e spostarle dalla ore dodici. Queste dita nere che ho ipnotizzato sulla mezzanotte cedono con sorprendente facilità, tanto da spezzarsi sulla spinta della mia forza. Fisso i moncherini rimasti sul quadrante bianco e cerco di riprendere il controllo di me stesso. 

Poi, in silenzio, senza attendere un commento, mi volto verso Aurora. 

No, non mi aspetto più niente da lei. 

Aurora è morta da giorni. 

Se ne è andata senza un lamento, mentre aspettava che la pasta fosse cotta, sfinita proprio sulla sedia su cui avevo trascorso le mie serate a fumare. Fino a mezzanotte.

Aurora è morta è io ho cercato di fuggire al suo silenzio sospendendo il tempo. 

- Va bene così, Aurora? – chiedo, delicato, mentre mi siedo di fronte. 

I suoi occhi sono affossati nel piatto, i capelli neri e lunghi ne coprono il volto reclinato e forse proprio questo particolare mi ha aiutato a stare con lei durante l’agonia e dopo la morte.

Almeno fino a pochi minuti fa, quando ho iniziato a risentire la sua voce e ho compreso che il trucco delle lancette non sarebbe bastato a sopprimere il mio senso di colpa.

Con un dito indico il piatto vuoto al suo posto.

- Mi dispiace, tesoro. La pasta è fredda, ormai. 

Il suo volto reclinato non mi degna di una risposta. 

Così, senza nemmeno vederla, prendo la prima sigaretta che ho preparato sul tavolo accanto al mio posto. Un altro gesto rapido, immediato, con l’accendino con cui ho acceso per l’ultima volta il gas della cucina. 

Tossisco e subito ho un conato di nausea, ma continuo a aspirare nicotina, veloce. 

Questa che brucia tra le mie labbra è solo la prima delle tre sigarette allineate al mio fianco. Invece di gettarle, le avevo tumulate nel buio della credenza, come se avessi sempre saputo che un giorno sarebbero state esumate.

I miei occhi tornano alle lancette mutilate, poi si adagiano sul capo di Aurora. 

Ho solo pochi minuti per riempirmi i polmoni di questo fumo ritrovato. 

- Va tutto bene, tesoro – sussurro a quanto rimane di mia moglie.

Inspiro a fondo. 

Solo pochi minuti prima che il gas della cucina prenda il sopravvento.

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