Pneuma – Giovanni Sicuranza
Adesso ascolta la storia, su ogni mia parola cerca di essere complice del tuo respiro, piano, come mai hai fatto.
Non ignorarlo, non questa notte, figlio mio, il respiro è il vento migliore del mondo, ma sono le cose ovvie che ci fregano, perché le diamo per scontate, non ne comprendiamo l’importanza, fino a quando, all’improvviso, mancano.
Non ignorarlo, non questa notte, figlio mio, il respiro è il vento migliore del mondo, ma sono le cose ovvie che ci fregano, perché le diamo per scontate, non ne comprendiamo l’importanza, fino a quando, all’improvviso, mancano.
Tu eri appena nato, allora, ed io già sapevo che il mio respiro era troppo ruvido, troppo corto, sempre più corto, per non spezzarsi a breve.
Avevo ordinato il pezzo su internet, un buon affare, spese di spedizione incluse e, guarda, risparmiati l’espressione di compatimento, sapevo che non avrebbe promesso quello per cui l’avevo pagato, ma era importante lo stesso, era il feticcio della speranza, per cui ero disposto a pagarlo anche dieci volte tanto, senza sentire puzza di fregatura. Un po’ come con il catorcio del tuo primo motorino, ricordi, te lo dicevo che valeva meno, troppo meno, ma per te era importante averlo, proprio quello, e solo per il cobra dipinto sul serbatoio, perché la sua sinuosità verde su sfondo nero era la firma del tuo essere.
Ah, annuisci, comprendi dunque cosa intendo, mi fa piacere, perché la tua complicità è tutto quello che chiedo.
Quando il corriere mi porse il pacco, beh, sì, ero così emozionato che sentii il fiato gonfiarmi la gola e rimanere lì, ottuso, pericoloso. A proposito, come va, lo senti il tuo?
D'accordo, te la faccio breve, abbiamo poco per le chiacchiere, ma, sai, ora penso che tu ed io avremmo dovuto spiegarci meglio già da allora.
L’apparecchio della spirometria era solo un apparecchio della spirometria, e si riduceva a un tubo verde collegato a una scatola di plexigas verde, un verde fiacco, tipo pastello eroso sulle pareti di una scuola, però io mi attaccai a quel tubo tutto il giorno, come se fosse la mia fede, con la stessa devozione che dedicavi alla tetta di tua madre e poi a quella di mia sorella, quando la mamma, beh, lo sai. Te l’ho già detto, non credevo davvero alla promessa di prolungare il respiro, di renderlo infinito oltre il tempo, solo che leggere la speranza sulla confezione, vederla concreta mentre espiravo nel tubo, mentre dedicavo a quell’apparecchio il mio asma, mi rendeva di nuovo vivo.
La mia ossessione spirometrica. Mi svegliavo e mi attaccavo al tubo, tornavo dal lavoro e bramavo il tubo. Schiacciavo il pulsante sulla tastiera, dove c’era scritto “read”, questa parola piena di entusiasmo, con caratteri vermigli, brevi e decisi, e leggevo: “Complimenti, dopo questa seduta il tuo respiro ha guadagnato un’altra settimana”.
Respiravo meglio, respiravo proprio meglio e tua madre iniziò a morire. Fame d’aria, ecco cosa aveva. Prima lieve, poi vorace, fino alla consunzione. Mai le proposi di attaccarsi alla macchina e nemmeno smisi di usarla, nonostante avessi già intuito quanto tu sei riuscito a chiedermi solo ora. Forse quella macchina funziona davvero, altrimenti non si spiega come mai sono qui, a centotrent’anni, a parlartene senza sentire nemmeno la necessità di una pausa, mentre tu ti stai asfissiando in ospedale.
Sì, la macchina funziona, figlio mio, secondo me sottrae il respiro di chi mi è vicino per donarmelo. Adesso ho bisogno di te, prima sono stati preziosi gli aneliti della mamma, della zia e poi di tua moglie e dei tuoi figli. Ti prego, rimani in contatto con il tuo diaframma, attimo dopo attimo, mentre io collego l’apparecchio, rilassati, lascia che ci unisca un’ultima volta il respiro, il nostro più importante testimone di vita.
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