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Per ingannare l'attesa



Per ingannare l’attesa
Giovanni Sicuranza

- Non ci sono più!
Nemmeno io, sto per rispondergli, disperso tra gli appunti di Patologia Medica. Solo che alzo lo sguardo dal quaderno, lungo la penombra serale della nostra stanza, e lo vedo.
Armando sembra sul punto di avere un infarto, un altro infarto, dopo quello che gli ha dato una spinta verso la morte pochi mesi fa, nel giorno del suo ventunesimo compleanno. 
Auguri sentiti da tuo padre, Armando, il tuo sconosciuto paparino deceduto a trentadue anni per un difetto ereditario del cuore.
Ora Armando si è ripreso dall’intervento chirurgico d'urgenza, ma ricordo il colore sudario della sua pelle, gli occhi come soli neri pronti all'assalto nell'iperspazio del vuoto, mentre i suoi passi rantolavano verso me, in questa stessa stanza che dividiamo in affitto, chiedendomi “aria”. Allora stavamo preparando Patologia Medica, un esame bastardo diretto dalla fanatica regia del professore Asperide, adesso stiamo ricominciando.
Ma non credevo infarto incluso.
- Armando - inizio, come un automa, pensiero dissolto, il corpo proteso verso l'angoscia del mio amico.
No, mi cristallizza lui a metà percorso tra la sedia e la porta del bagno. No, ripete con un movimento deciso del dito. In quell’attimo siamo immagini immobili, io nell'atto della corsa, lui appoggiato con la schiena allo stipite della porta.
- Sto bene, sto bene, sono loro, non ci sono più - sudano le parole di Armando, bianche, viscose, appiccicate finalmente alla mia comprensione.
Mi risiedo, anzi, no, non sono io, è come una mano che dalla testa mi spinge verso il basso, come una zampa gigantesca, penso, la sento.
Ho un brivido profondo, che tende ad infinito.
- La teca è vuota, loro non ci sono più, vieni a vedere - Armando non mi sta esortando, supplica, prega. E non si muove dalla porta del bagno.
- Sono morti - mi sforzo di rispondere, la voce incatenata nel sussurro ancestrale della paura – Sono essiccati, Armando - replico con la speranza che il mio tono sia più deciso, perché, dentro, vedo zampe pelose, veloci, letali, già sopra le nostre teste.
Tre mesi prima, nell'euforia della dimissione dall'ospedale, Armando annunciava che avrebbe acquistato il primo animale morto, in un contrappeso alla sua salvezza.
È semplicemente idiota, gli avevo fatto notare, mentre entravamo nel quartiere del mercatino settimanale. Poi, in silenzio, lo avevo seguito. Anche lui sapeva che era idiota, ma la sua decisione aveva un significato più profondo, irrazionale, scaramantico. 
Sacrifico all'altare la morte di un animale per ringraziare il divino di avermi risparmiato. 
Ecco perché ero rimasto in silenzio, quando aveva acquistato due ragni enormi, essiccati, in una teca trasparente. Cinquanta euro spese con l'espressione di chi conclude l'affare migliore della propria vita. 
Sulla parete bianca del bagno, di fronte al lavandino, e all'altezza dello specchio, quelle due bestie nere e pelose sembravano in attesa. Il riflesso nascondeva il lungo chiodo, la sottile lancia, che ne trafiggeva i corpi per stabilizzarli al polistirolo della teca. 
Ogni mattina, dimentico dei nostri orribili ospiti, sobbalzavo allo specchio.
- Non credo ti facciano bene al cuore.
- Tranquillo, basta abituarsi. E poi ricorda che sono morti – Armando sorrideva, appena – Loro sono morti. 
Ora.
La nostra stanza è un monolocale, un concentrato di letto a castello, tavolo di legno economico, un angolo cottura, da cui straripano pentole e piatti da lavare, una distesa di scatoloni gravidi di libri e vestiti; un territorio di cassetti aperti e semichiusi. 
Tane.
Ora.
La nostra stanza è soffusa di crepuscolo, gli angoli cancellati dalle ombre. È la versione urbana e domestica dell’habitat ideale di due predatori come i nostri ragni d’arredamento. 
La femmina misura diciotto centimetri, tredici il maschio. 
La notizia più rassicurante è che sono Haplopelma Minax, e adesso, fossilizzato dalla paura, ne comprendo il significato più immediato. Capisco perché questi aracnidi thailandesi, veloci, aggressivi, sono stati chiamati minax, “minaccia”. 
Un fruscio, proprio accanto ad Armando, un urlo, proprio dentro Armando, e un tonfo sordo nello scatolone ai suoi piedi. 
Non vedo il mio amico, il buio lo ha disperso, ma capisco che è caduto. 
Ancora mi alzo per soccorrerlo, ma poi torna quella parola, “minax”, che mi occlude le sinapsi, e gemo. 
- Armando – sussurro – Armando – ripeto, almeno credo, perché sento solo i mei singhiozzi e qualcosa che mi sfiora la caviglia, nell’oscurità. 
L’attimo dopo mi scopro con il manico della scopa, bel saldo tra le mani, l'attimo dopo mi accorgo che lo calo con violenza su qualcosa di duro, che si muove appena e poi, improvviso, cede, si apre, sbilanciandomi in avanti. 
Portandomi a contatto con il cranio fracassato di Armando. 

Tutto il resto me l’hanno spiegato dopo, in carcere. Il mio avvocato, lo psichiatra, cauti, gentili, hanno razionalizzato gli eventi. 
I ragni, in effetti, erano caduti. Se stavano sulla tazza del cesso, minacciosi e immobili.
Gli effetti sonori, erano di Armando. Quando ha sentito un rumore - quando abbiamo sentito quel fruscio, li correggo dentro, in un silenzio che non voglio rompere -, si è spaventato e allora, sì, ha avuto un altro infarto. È caduto a terra, sopra uno scatolone, una mano protesa in avanti. Ecco cosa mi ha toccato la caviglia, ecco cosa ha fatto esplodere la mia adrenalina omicida. 
Non sappiamo se Armando sarebbe sopravvissuto, probabilmente no, mi dicono, in tono monocorde, leggero, aspettiamo i risultati del medico legale, e ognuno di loro, il mio avvocato, lo psichiatra, mi confortano con una mano sulla spalla. Il Giudice ne terrà conto, vedrai, quando valuterà il tuo omicidio. Presto ti concederà i domiciliari, vedrai. La tua è una situazione particolare.
“Situazione particolare”, proprio così la chiamano, prima uno, poi l'altro. Probabilmente si sono accordati su cosa spiegarmi, su come spiegarmelo. 
Intanto la mia cella è penombra piena di anfratti e silenzi, così, quando sono solo, inizio a ridere. 
Tanto per ingannare l’attesa.   


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