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Causalità professionale.



Causalità professionale

Bernardino Ramazzini deve avere interrotto molte volte la scrittura del trattato “De Morbis Artificum Diatriba”, perché la sua opera è frutto di lunghe osservazioni sulle condizioni del lavoro. Di profonde riflessioni, da uomo di scienza libero, che conosce e apprende. 
“Non esiste lavoro il quale, per le condizioni in cui si effettua, non possa essere causa di danno alla salute: ad ogni lavoro corrispondono stimmate morfologiche, lesioni anatomo-patologiche e turbe funzionali più o meno caratteristiche”.
Questa frase è la sintesi del nesso di causa nella prospettiva della moderna Previdenza.

Tutto ricomincia oggi. 
La malattia professionale è qualsiasi alterazione peggiorativa dello stato psico-fisico preesistente, causata dall’azione, diluita nel tempo, di un agente eziologico presente in ambiente professionale. L’agente eziologico non solo può fare parte dell’ambiente professionale, ma anche coincidere con lo stesso, configurando situazioni varie e di sempre più importante attualità, come lo stress da lavoro-correlato, il barn out, il mobbing.
Ma, otre questi singoli aspetti, l’attenzione va posta sul termine “qualsiasi alterazione peggiorativa”, termine che può anche essere letto come “qualsiasi stato morboso”. 
Allo stato attuale, le conoscenze della medicina e la prevenzione sui luoghi di lavoro hanno portato  alla manifestazione di aspetti interessanti. 
Da un lato, la prevenzione, con l’ergonomia e lo studio e la valutazione accurata dei rischi, ha portato alla graduale sostituzione di manifestazioni cliniche conclamate con altre, sempre riconducibili alla stessa patologia, ma meno evidenti, paucisintomatiche.
Per inciso, quando questo si traduce nella valutazione di danno biologico, ex decreto legislativo 38/2000, si apre un importante problema: un consistente gruppo di quelle patologie che si manifestano con sindromi algo-disfunzionali sfumate, pur causalmente riconducibili alla professione, non superano la franchigia del 5% posta dall’INAIL quale limite dell’indennizzo.  

Tornando al discorso di base, ecco un altro aspetto su cui riflettere: le acquisizioni della conoscenza medica hanno svelato sintomi e segni clinici riconducibili alla malattia di origine professionale, che non sono tipici, ma hanno carattere generico. Ad esempio, gli esposti a solfuro di carbonio presentano, tipicamente, un’encefalopatia. Ma possono anche essere affetti da arteriosclerosi, in particolare modo localizzata agli arti inferiori. 
Un segno di carattere generico, non tipico di quella patologia, come può essere per l’appunto l’arteriosclerosi, spinge a domandarsi se quella stessa manifestazione sia riconducibile a una patologia di origine professionale o extraprofessionale, o in che misura questi aspetti concorrano nel determinarne la eziologia.
In ultima analisi, raramente le patologie professionali riconoscono un’unica causa, dovuta al lavoro, ma sono in relazione anche con altri fattori, al lavoro estranei, quali quelli ereditari, costituzionali, ambientali generici, etc. 
Si tratta, cioè, di patologie multifattoriali. 
Si pensi, ad esempio, alle neoplasie: non solo risulta impossibile individuare una causa unica, professionale o extraprofessionale, ma spesso la medicina non conosce tutte le cause che producono l’alterazione neoplasica. 
Traducendo questo concetto in termini di valutazione medico-legale, è importante sottolineare che molto spesso il nesso tra la malattia e la professione non è di causa unica, ma di concausa. 
E lo scopo del medico che si occupa di Previdenza è individuare, tra le concause della patologia, quella professionale. E di collocarla, quando possibile, nel giusto peso tra le altre concause. 

Un aiuto arriva dagli studi statistici, che sono il percorso progressivo della conoscenza medica, e che, a loro volta, si basano su osservazioni sperimentali sul vivente, calato nel proprio ambiente, compreso quello lavorativo, o sul cadavere, tramite l’importante motore di indagine che è l’autopsia.  
Gli studi statistici sono un punto chiave nelle patologie prove di caratteristiche cliniche tipiche, perché permettono infine di raggruppare quadri anche generici, o tra loro diversi, individuando un unico agente eziologico.
Questo permette di verificare il primo requisito importante del nesso di causa, che attiene alla causalità generica e trova la sua giustificazione nell’epidemiologia: 
l’idoneità lesiva di un agente a produrre l’alterazione dello stato di salute.  
Si tratta quindi di verificare se la c.d. “legge di copertura” è soddisfatta. 
Siamo nell’ambito della causalità generale. 
Per stabilire il nesso nel caso specifico la causalità generale è presupposto indispensabile di partenza. Ma non basta. 
Occorre che sia soddisfatta anche la causalità individuale.  
Senza entrare nel dettaglio, già ben conosciuto dai medici legali, qui si ripercorre solo l’elenco dei criteri della causalità individuale: il criterio anatomo-topografico, cronologico, di continuità fenomenica, di esclusione. 
È un percorso che inizia dalla fine, ex post, e va a ritroso, attraverso la manifestazione della patologia nel singolo individuo, verso l’agente eziologico. 
Un percorso patogenetico in cui è possibile smarrirsi, tra i sentieri multipli della concausa. O che può portare a vicoli ciechi, quando la causa è sconosciuta o individuabile in modo sfumato.      
Un numero rilevante di fattori causali, noti e sconosciuti, endogeni e esogeni, concorrono alla produzione, evoluzione e agli esiti della patologia.  
La malattia professionale si trova in questo difficile percorso. 

Si pensi, ad esempio, alla definizione correntemente utilizzata di “Disturbi muscolo-scheletrici correlati al lavoro” (Work Related Musculoskeletal Disorders: WRMSDs).
Una definizione in cui si trovano due importanti elementi che caratterizzano questi disturbi:
1.gli effetti sull’apparato muscolo-scheletrico non sempre si manifestano con una patologia ben definita ma mediante sintomi più o meno specifici, talora non accompagnati da segni clinici (“disorders”);
2.si tratta di alterazioni per le quali è riconosciuta una genesi multifattoriale e la cui insorgenza è correlata a diversi fattori di rischio lavorativi, ma può dipendere anche da fattori non professionali (“work-related”).

L’INAIL ha assorbito questo percorso con una Circolare del 16 febbraio 2006 (Direzione Centrale Prestazioni, della Sovrintendenza Medica Generale e dell’Avvocatura Generale). Questa Circolare, dal titolo “Criteri da seguire per l’accertamento della origine professionale delle malattie denunciate”, sul nesso di causa fissa i seguenti punti: 
“1. Nel caso in cui risulti accertato che gli agenti patogeni lavorativi siano dotati di idonea efficacia causale rispetto alla malattia diagnosticata, quest’ultima dovrà essere considerata di origine professionale, pur se sia accertata la concorrenza di agenti patogeni extralavorativi (compresi quelli genetici) dotati anche essi di idonea efficacia causale, senza che sia rilevante la maggiore o minore incidenza nel raffronto tra le concause lavorative ed extralavorative.
2. Se gli agenti patogeni lavorativi, non dotati di autonoma efficacia causale sufficiente a causare la malattia, concorrono con fattori extralavorativi, anche essi da soli non dotati di efficacia causale adeguata, e operando insieme, con azione sinergica e moltiplicativa, costituiscono causa idonea della patologia diagnosticata, quest’ultima è da ritenere di origine professionale. In questo caso, infatti, l’esposizione a rischio di origine professionale costituisce fattore causale necessario, senza il quale l’evento non avrebbe potuto determinarsi (ad es. tumore del polmone in soggetto fumatore esposto a rischio lavorativo da amianto). 
3.Quando gli agenti patogeni lavorativi, non dotati di sufficiente efficacia causale, concorrano con fattori extralavorativi dotati, invece, di tale efficacia, è esclusa l’origine professionale della malattia.”

Individuata la criteriologia per l’accertamento del nesso di causa, occorre chiedersi qual’è la graduazione del nesso quando si tratta di malattie professionali. 
La certezza? La probabilità? 
Come noto, nelle malattie professionali sussiste un doppio itinerario: quello basato sulla presunzione legale di origine, che riguarda la malattie tabellate, e quello che riguarda le malattie non tabellate, in cui l’onere della prova spetta al lavoratore. 
In entrambi i casi la sussistenza del rischio deve essere accertata. 
L’attuale riduzione dei casi patognomonici, l’aumento di patologie cronico-degenerativo, neoplastiche e psichiche, hanno portato ad adottare una criteriologia di tipo probabilistico. 
Nei casi concreti, per i motivi sopra esposti, quando si tratta di stabilire il nesso di causa della tecnopatia si è ben lontani dalla certezza, o dalla “quasi certezza” che opera in ambito penale. 
La criteriologia è quella del diritto civile, con ricorso al criterio di probabilità. 
Ma con una precisazione importante che caratterizza l’ambito previdenziale e le malattie professionali in particolari e che si delinea di seguito. 
Il rigore che la prova implica, soprattutto quando a carico del lavoratore, deve essere attenuato dalla natura previdenziale della prestazione richiesta e dagli obblighi istituzionali ed etici dell’INAIL. 
A questo concetto, si aggiunga che le malattie professionali, come visto, spesso si manifestano con caratteristiche generiche, sfumate, anche a distanza di molto tempo dall’esposizione, e sono di origine multifattoriale. 
Il criterio probabilistico accettabile in ambito previdenziale è dunque quello della causalità debole, ancora più debole della causalità civile. 
È intuitivo che per ritenere probabile un evento, il grado di probabilità deve essere quantomeno superiore al 50%. Tuttavia, tentare di meglio quantificare in percentuale questo criterio è fuorviante, perché la percentuale esprime convinzioni soggettive, dovute a elementi di giudizio di stima, e dunque non di calcolo. 
Dunque è importante operare una graduazione del criterio causale. 
Nell’ambito penale, che non recepisce un concetto di causalità eteronomo, ma ne elabora uno, o più, autonomi, è richiesta una causalità forte, anche per tutelare i diritti dell’indagato-imputato (“in dubio pro reo”). Nell’ambito civile, una causalità media, basata su una probabilità importante. In ambito previdenziale, una causalità debole, anche a tutela dei diritti del lavoratore (“in dubio pro misero”).
In altre parole, opera in ambito previdenziale il criterio della ragionevolezza. 
Ed è sufficiente che la patologia risulti compatibile con il rischio a cui il lavoratore è esposto, o è stato esposto.

Per concludere. 
Le patologie denunciate all’Istituto come malattie professionali dotate di una patognomonicità che consenta una attribuzione di eziologia professionale con criteri di assoluta certezza scientifica costituiscono ormai una limitata casistica. 
Attualmente prevalgono malattie croniche degenerative e malattie neoplastiche e, più in generale, a genesi multifattoriale, riconducibili a fattori di nocività ubiquitari, ai quali si può essere esposti anche al di fuori degli ambienti di lavoro, oppure a fattori genetici. Il lungo periodo di latenza di alcune di queste malattie, inoltre, rende difficoltosa, quando non impossibile, la puntuale ricostruzione delle condizioni esistenti nell'ambiente di lavoro, nel momento in cui si sarebbe verificata l’esposizione a rischio. Il rapido mutamento delle tecnologie produttive, infatti, ha indotto le imprese ad adeguare i macchinari, le attrezzature, i cicli produttivi e l’organizzazione aziendale, con la conseguenza che la situazione oggettivamente riscontrabile al momento della denuncia della malattia professionale è radicalmente diversa da quella esistente all’epoca rispetto alla quale va valutata l’eziologia della malattia stessa. La stessa problematica, sia pure per motivi diversi, si presenta anche per patologie che non sono caratterizzate da lunghi periodi di latenza.
Una volta accertata la nocività dei fattori di rischio lavorativi, si potrà passare alla valutazione del nesso di causalità tra detti fattori di rischio e la patologia denunciata come malattia professionale. 
È in tale ambito che l’accertamento della sussistenza del nesso eziologico, in termini di debole probabilità, tra il rischio lavorativo e la patologia diagnosticata deve indurre a riconoscere la natura professionale della stessa anche quando abbiano concorso a causarla fattori di rischio extralavorativi. 
Nel caso di concorrenza di fattori professionali con fattori extraprofessionali trovano, infatti, applicazione i principi di cui agli articoli 40 e 41 del codice penale, che, in quanto principi generali dell’ordinamento giuridico, sono applicabili anche alla materia dell’assicurazione contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali. 
In particolare, in forza del principio di equivalenza, causa di un evento è ogni antecedente che abbia contribuito alla produzione dell’evento stesso, anche se di minore spessore quantitativo o qualitativo rispetto agli altri, salvo che sia dimostrato l’intervento di un fattore causale da solo sufficiente a determinarlo. 
Ne consegue che, una volta che sia accertata l’esistenza di una concausa lavorativa nell’eziologia di una malattia, l’indennizzabilità della stessa non potrà essere negata sulla base di una valutazione di prevalenza qualitativa o quantitativa delle concause extralavorative nel determinismo della patologia. Sul piano operativo, da quanto sopra consegue che nel caso in cui risulti accertato che gli agenti patogeni lavorativi siano dotati di idonea efficacia causale rispetto alla malattia diagnosticata, quest’ultima dovrà essere considerata di origine professionale, pur se sia accertata la concorrenza di agenti patogeni extralavorativi (compresi quelli genetici) dotati anch’essi di idonea efficacia causale, senza che sia rilevante la maggiore o minore incidenza nel raffronto tra le concause lavorative ed extralavorative.

Dopo questo lungo percorso, torniamo ancora un istante indietro nel tempo.
Ramazzini scrisse “De Morbis Artificum Diatriba” all’inizio del XVIII secolo. 
In questo trattato, l’uomo di scienza non aveva limiti.
Qualsiasi lavoro poteva essere causa di danno alla salute. 
Danno che si estrinsecava con “stimmate morfologiche, lesioni anatomo-patologiche e turbe funzionali più o meno caratteristiche”, comprendendo, già allora, le forme atipiche o non esclusivamente riconducibili al lavoro. 
Il suo sguardo era così acuto da arrivare fino a noi, ancora attuale.
Cerchiamo di non renderlo miope. 


Giovanni Sicuranza, medico legale, medico competente

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