Città del Ghetto
Giovanni Sicuranza
Lo Spazzino arrivò nel nostro paese con i superstiti della Terza Brigata Alpini Cadore.
Giunse nella mattina dell’attesa, senza fare numero, inaspettato e indesiderato. Voglio dire, se avessimo saputo che lo Spazzino era uno spazzino. Che si trovava annidato nei residui dei nostri sei uomini, quando varcarono l’alba di Lavrange, il peso della fuga nel respiro, la perdita dell’identità negli occhi.
Sei ricordi di uomini dai passi neri e moribondi. I nostri valorosi, tornati dalla Campagna di Russia come confezioni di merce avariata.
Tra loro, dentro loro, camminava lo Spazzino.
Sicuro, ricco di putrefazione, integro confrontato ai nostri soldati. Loro giunsero a rate.
Sicuro, ricco di putrefazione, integro confrontato ai nostri soldati. Loro giunsero a rate.
A rate di corpi.
Chi aveva perso l’avambraccio nello scoppio di una granata, chi la gamba, maciullata dal micidiale “T4”, il carro armato sovietico. Quasi tutti, nelle tasche rattoppate, trasportavano dita, brandelli delle proprie mani, dei loro piedi, sospesi nel congelamento, e moncherini dei compagni caduti, da restituire alle famiglie.
Tra loro, dentro loro, si aggirava lo Spazzino, e aveva fame e sete e grondava predazione.
Nostra Signora della Fossa lo attendeva. Noi, cuccioli prossimi alla fine, inconsapevoli del nostro divenire orfani, noi, ancora, no.
Quando la Terza Brigata Alpini Cadore era stata incorporata nell’ARMIR, sessantasette uomini promessi alla Patria, avevo quattro anni.
Papà esisteva solo nei racconti di mia madre, nei giorni in cui cercavo le sue braccia, il suo sollevarmi in aria. Del mio volo felice intorno all’orbita del suo viso.
Papà esisteva solo nei racconti di mia madre, nei giorni in cui cercavo le sue braccia, il suo sollevarmi in aria. Del mio volo felice intorno all’orbita del suo viso.
Mio padre sarebbe stato tra i ritornanti, questo sapevo. Eppure, dentro il fazzoletto inamidato di fango e sangue, dentro quel sudario appiccicaticcio, il suo pollice destro mi fu estraneo.
Mia madre lo accolse al seno, muta e ferma, poi me lo mostrò.
- Saluta papà – mi disse.
E fu in quell’istante, con quel dito nero e gonfio ondeggiante nell’aria, tra i miei capelli e il petto di mamma, che lo Spazzino si mostrò.
Più tardi avrebbe raccontato a noi bambini che il suo nome, in inglese, si pronuncia "scavanger".
A tutti noi, seduti in circolo intorno alla sua figura fetida, ognuno sopra il corpo di un genitore, sdraiato come tronco morto d’albero, avrebbe spiegato che lo scavanger è una sostanza chimica aggiunta ad una soluzione per rimuoverne le impurità.
Guardando ognuno di noi con i suoi occhi dolci, con il colore della marmellata di prugne, avrebbe aggiunto che lui proprio questo faceva, si nutriva dei cadaveri putrefatti, della morte fisica, lasciando a quella psichica il compito di diffondersi tra i superstiti.
Ma questo ce lo svelò solo dopo il risveglio di Nostra Signora della Fossa e poco prima che Lavrange diventasse nota con un nuovo nome, quello che oggi vi indicano i navigatori satellitari.
"Città del Ghetto".
[stralcio da “Mirabilia – Nostra Signora della Fossa”, romanzo ispirato a “Polvere di Silenzi” e nella polvere spirato]
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