"Questa storia, secondo cui se uno scrittore si autoproduce non è un vero scrittore, non è solo incredibile: è assurda e anche un po' buffa. Stiamo parlando dell'unico settore al mondo in cui, se uno scommette sulla sua impresa, gli danno del vanitoso. Quando con i soldi dell'assicurazione mi buttai nell'immobiliare, nessuno diceva che ero un vanitoso: dicevano che ero un imprenditore coraggioso che credeva nel suo prodotto ... Però, se paghi con i tuoi soldi per pubblicare i tuoi libri, perché credi nel tuo lavoro ... allora no, allora non c'è scampo: vanitoso. Vanity author" (dall'intervista a John Locke, pag. 31 del settimanale "Il Venerdì di Repubblica").
Aggiungo questa osservazione rivolta al "vanity author":
"Se ti autoproduci, sai che schifo. Almeno i libri in libreria sono filtrati da un editore e, dunque, valgono più dei tuoi".
Affermazione dogmatica, senza appello.
Chiunque abbia un minimo di dimestichezza di qualità esposta in libreria, chiunque conosca un minimo il mondo dell'editoria, credo stia sorridendo, eppure la maggior parte dei lettori ha questo pregiudizio. Pregiudizio nel senso letterale del termine: un giudizio dato ex ante, ancora prima di avere letto un'opera del "vanity author", nonostante l'abbondanza di scartoffie reperibili (e deperibili) in libreria.
Altro pregiudizio: "Se ti autopromuovi sei arrogante, o ridicolo, o entrambi".
Domanda: cosa dovrebbe fare un autore che si autopubblica, se non autopromuoversi?
A mio avviso, la capacità di promuovere un libro e il contenuto della promozione stessa, quando stimolanti, dovrebbero spingere all'attenzione verso il "vanity author".
Giovanni Sicuranza
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