Alle 06.45
Giovanni Sicuranza
Non c’è bisogno di preoccuparsi.
Scricchiola il respiro di Aloisio De’ Profundis, foglia secca nell’albero polmonare.
Non morirai per forza di questo.
Esonda lo sguardo sul corpo della moglie, disteso al fianco nella solitudine del sonno.
Ci sarò, anche domani, certo.
Le mani afferrano la sveglia con la volontà delle radici al suolo.
06.45, come ogni mattina.
Aloisio De’ Profundis annuisce al led verde. I secondi avanzano, la sua vita anche.
E si distende supino, le braccia unite sul petto, ma sotto le sterno, per evitare l’incontro con il cuore. Con il suo ritmo accelerato.
La moglie russa. Apoteosi di rombo nasale, pausa, nuova innalzata nel coro di un sonno regolare.
Aloisio cerca il labbro inferiore e lo tiene saldo a se con i denti.
La sveglia suonerà sempre, si conforta. Domani, presto, anche se è domenica.
Sì, annuisce all’oscurità, è un traguardo sentirla ogni giorno alle sei e quarantacinque.
Aloisio trascorre così le prime ore del buio casalingo.
Ricoverato per embolia, convive con il terrore che il respiro, ruvido, si arrampichi ancora sulla gola per morire sfinito, prima di uscire dalla bocca. E di essere di nuovo accoltellato alla schiena, con la lama di dolore che colpisce sempre in quel punto, precisa, assetata di carne polmonare.
Il riflesso della sveglia si posa sui contorni del suo sguardo. Verde, scuro. Come il bosco in cui stava tagliando legna.
È lì che è successo. Non fosse stato per Mohammed, quel marocchino appena assunto, forse lì sarebbe se ne sarebbe andato. Tra le sfumature della primavera.
Aloisio socchiude gli occhi, sospira, appena, per non svegliare gli emboli che potrebbero ancora attendere da qualche nel suo corpo.
Non sa come, ma i dottori gli hanno spiegato che forse ha una malformazione, una comunicazione clandestina tra arteria e vena, che crea turbolenze. È come se invece dello scorrere regolare di un fiume, in un anfratto sconosciuto ci fosse un vortice continuo. Da dove possono partire emboli.
Posso morire all’improvviso?
Aloisio abbraccia le labbra con i denti, fino a sentirle pulsare.
La domanda galleggia nel buio della stanza e fa rumore, più del russare della moglie.
Tranquillo, gli hanno risposto i dottori, con l’anticoagulante il rischio si riduce. Sorriso professionale e stretta di mano, forte. Viva.
Ridurre il rischio non significa annullarlo, però.
La luce della sveglia tenta di raggiungerlo dal comodino. Lui si avvicina, cauto, e la guarda, pieno di gratitudine, come farebbe con la compagna di una vita.
Ti sentirò suonare tutte le mattine e significherà che sono sveglio, mormora.
Il led in un angolo è in attesa sulle 06.45.
Una promessa.
***
Marina grugnisce e tira su le coperte.
Niente.
Sbuffa e da un calcio alla gamba del marito.
Niente.
Allora alza il capo dal dormiveglia e riemerge, i capelli sparpagliati tra il cuscino e il viso contratto, gli occhi che si girano verso Aloisio.
- Spegni quella sveglia, accidenti a te. È domenica, vorrei dormire almeno un giorno.
E gli occhi terminano il percorso ancora stordito.
- Hai sentito?
E poi si svegliano del tutto.
Il marito giace immobile, le braccia sul petto.
Non si muove.
- Ehi – si spezza la voce, la mano che attraverso l’aria, all’improvviso densa. Le dita che conoscono già quello che sentiranno.
- Aloisio.
È questa la prima volta in cui Marina De’ Profundis chiama il marito, dopo la morte.
E sul suo inutile nome, tutto si blocca. La figura della donna protesa verso il corpo, i suoi pensieri, le urla che si affollano e non riescono a uscire, le lacrime che non sanno emergere.
Solo la sveglia singhiozza
bip bip
Sullo schermo del soffitto un numero verde, sporco di ombre.
06.45.
Se ne sta lì, appeso, sopra lo sguardo perduto di Aloisio De’ Profundis.
Che ha le labbra arricciate verso la gola.
Labbra immobili e livide.
- Le sei e quarantacinque.
Il gorgoglio esumato dalla gola di Aloisio De’ Profundis avvolge Marina come nebbia nera.
– Sono ancora qui, cara.
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