Caffè all’ibrik
Giovanni Sicuranza
Italo sta contando i suoi respiri e si chiede se riuscirà a capire quale sarà l’ultimo.
Supino su un letto di raso, ogni muscolo mangiato dal virus, ha quasi un aspetto bidimensionale.
Sono raso al suolo, si è detto all’alba di questo giorno di primavera.
Ha riso, almeno ha creduto di farlo, perché non sente più e non è nemmeno sicuro di avere ancora le orecchie. Il virus ha sempre fame.
Raso al suolo su un letto di raso, si è ripetuto nel primo pomeriggio. Ma non gli è sembrato di ridere ancora.
Allora ha continuato a fare quello che gli è rimasto da fare.
Centoventuno, centoventidue
pausa, apnea
centoventiquattro, no, era centoventidue?
Meglio azzerare la conta, in modo assoluto, trattenere il fiato fino a uccidere ogni respiro, perché tanto è inutile, ogni volta si confonde.
Con sua moglie non è andata così. Mentre le premeva il cuscino sulla faccia, sentiva distintamente la sua fame d’aria.
Mentre le mani di lei graffiavano l’aria, contava.
Uno, due, tre
pausa
quattro, cinque
pausa più lunga
sei
Stop.
Scusa cara, è tutto finito, amore.
Penelope ha smesso di soffrire e ora i suoi resti giacciono al suo fianco, raso nel raso, finchè virus non li separi.
O forse no.
Allunga il collo appena oltre la sponda del letto e con le labbra si aggrappa alla cannuccia.
Il caffè è freddo, ma Italo lo trova eccezionale.
Da tre giorni si nutre di caffè. Penelope ne ha preparato diciotto litri. Nove per lei, nove per lui.
Un lungo sorso e sente la bevanda disperdersi nell’avida chiamata dei suoi tessuti.
Non è caffè da moka, questo.
Penelope conosce miscele migliori.
***
La donna sembra una bandiera invincibile al vento di Izmir.
Il peschereccio è appena arrivato al porto, scortato dai militari turchi. Italo percorre la passarella, le mani legate dietro la schiena e la vede.
In piedi sul bordo del muretto, immobile sulla linea di confine tra la terra e il mare.
Se ne sente conquistato e sa che è per sempre.
Lei gli rivolge il cenno di uno sguardo. Nessuna curiosità per i pescatori catturati, nessuno scherno. I suoi occhi verdi si aprono appena su Italo, mentre porta alle labbra una tazza.
I militari spingono lontano e ridono, ma anche quando le da’ le spalle, Italo sa che la donna lo sta guardando. E sente l’aroma che l’avvolge. Aroma di caffè.
***
Italo no riesce a voltarsi, ma si accorge che la pressione sul letto si è sbilanciata sul lato opposto, dove giace il corpo di Penelope.
Gli sembra di sentire il cuore che salta e, per un attimo, lo visualizza. Il muscolo della vita che ha un guizzo di orgoglio, suda sangue e cerca.
Allora si attacca alla cannuccia, chiude gli occhi e beve caffè, beve e spera.
***
La settimana dopo, il vento di Izmir era ancora lì. Con la donna.
Lei beveva caffè.
Lui aveva gli stracci dell’arresto e qualche livido lasciatogli come timbro di espulsione dalla Turchia.
Avrebbe desiderato baciare la donna, subito, sfidare la Legge e la Vita, e i primi passi verso lei gli dicevano che lo avrebbe fatto, ma un cenno lo cristallizzò sul molo.
La donna gli porgeva una tazza di caffè.
La donna era scesa dal muretto, senza versare nemmeno una goccia. Una mano tesa verso lui, l’altra lungo il fianco, a reggere una strana brocca.
Caffè. In lei. Ovunque.
Italo aveva bevuto dalla tazza, gli occhi persi nei silenzi del suo volto.
La bevanda era forte, aggressiva, una scossa liquida che lo aveva rigenerato all’istante, lontano dal dolore sordo della prigionia.
- Vieni con me – le aveva detto – Ti porto lontano.
Lei aveva annuito.
- Non senza il mio caffè – un sussurro roco, in italiano.
L’anno dopo Italo e Penelope erano sposi.
***
Forse lui aveva preso il virus durante l’ultimo viaggio in mare.
Una mattina aveva cercato di alzarsi e gli era sembrato che le gambe fossero rimaste sul raso.
Era caduto sul pavimento e tossito sangue.
Penelope non aveva chiamato il medico, si era limitata a preparare più caffè del solito. Quel caffè corposo, vivo, che li aveva accompagnati in ventisei anni di matrimonio.
Anche quando il virus era passato in lei, non aveva smesso.
Caffè. Caffè fino alla morte.
Oltre la morte.
***
Italo perde un respiro, poi due.
Sente il cuore entrare in un frullatore e si chiede come sarà.
Andarsene.
***
Il caffè aiuta a non dormire, gli diceva Penelope nei primi giorni in Italia, Pensa se ne bevi tanto, tanto davvero.
Muori, rispondeva lui, ridendo.
Lei scuoteva appena la testa. Seria.
Nel mio paese prepariamo il caffè nell’ibrik. È il caffè turco. Non ne esiste di più forte.
Sì, lo so, continuava a ridere lui e intanto beveva ibrik-caffè e sentiva che avrebbe potuto spaccare il mondo, o solo piegarlo per la sua donna.
Lo bevo da quando ho sei anni, Italo, amore mio.
Insolito, ma vero.
Poi aggiungeva che erano già trascorsi settanta anni da allora e Italo smetteva di ridere.
Non lo trovo divertente, sbottava.
Allora lei gli aveva mostrato il suo atto di nascita, il vero, non quello ufficiale.
Per l’anagrafe, per tutti, la moglie di Italo era una donna trentenne.
Solo che era nata quasi ottanta anni prima.
***
Italo riconosce l’ultimo respiro.
E’ affannoso, interminabile. Ha il sapore vivo del caffè di Penolope.
Nell’ultima agonia, una mano diventa artiglio sul raso, l’altra afferra quella del cadavere della moglie.
Rassicurante, lei risponde alla stretta.
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