A quel paese
Giovanni Sicuranza
- Ma vai a quel paese!
Tutto, intorno, si ferma.
Immagino molecole di carbonio e ossigeno che si guardano, attonite, neutrini che incespicano uno sull'altro, distratti dal mio urlo.
Che annulla il tempo.
Potente. Selvaggio.
Lei mi guarda.
Forse ha perso qualche capello, forse anche qualche generazione di vita, nei tre anni in cui abbiamo convissuto.
Casa nostra è il defunto lascito dei miei genitori. È la bara dell’amore.
Nella stanza da letto mio padre uccideva di urla mia madre. Nella cucina, macerie di piatti e bicchieri erano l’archeologia di una coppia a pezzi.
Sono morti insieme, i miei, un affronto.
Il loro ultimo sguardo, gonfio di ira, deve essere andato al taxista che si permetteva di investirli in contemporanea.
Il cadavere di mia madre, quello di padre, accasciati uno sull’altro, nell’unico abbraccio che io ricordi. Avevo ventidue anni e vivevo sempre qualche passo dietro loro. Anche quel giorno, sulle strisce pedonali.
Mi hanno insegnato come si ama e altri modi non li ho trovati. I film sentimentali, ma so che sono finzione.
“Vai a quel paese” è il mantra dell’amore.
Rabbia e noia sono i dominatori della coppia.
A lei non ho risparmiato nulla, fino all’esplosione di quella frase.
Un “vai a quel paese” così intenso, da avere scosso tutte le tettoniche a placche che sostenevano il nostro rapporto.
Finita la scossa di terremoto, mentre mi accasciavo sulla sponda arida del letto, lei è andata via. Senza parola.
Qualche ora dopo, qualche mese dopo, mi sono alzato e ho iniziato a cercarla.
Al lavoro, licenziata.
Tra gli amici, ah, no, non avevamo più amici; erano stati tutti decespugliati dai denti della mia aggressività.
Ospedali, ostelli, nessuna “lei”.
L’obitorio. Ma scherza? Crede che se ci arrivasse una così, magari nuda, non la noteremo? E tutti a ridere, tra carni incoscienti.
***
Ho ripreso la mia vita, a ritmo onirico.
Il mondo mi trascorreva attraverso, durante le notti insonni, i silenzi della casa, nel lavoro all’agenzia viaggi.
Lei era sparita, no, annullata, come mai esistita, illusione di un desiderio.
Quanto l’amavo! Non la ferivo di parole proprio per questo?
Dal mio ufficio, vagabondavo su internet tra Praga, Parigi, sulle crociere nei Paesi Bassi, mi perdevo nelle mappe di Istanbul, Lanzarote, Città del Capo.
Zoomavo su videocamere installate negli angoli del mondo. Giorno dopo giorno, mese dopo mese. Anno dopo anno.
E pensavo che mi aveva preso in parola. Era andata a quel paese.
Ma quale?
***
Eleonora giunse, non voluta, sei anni dopo.
Ero amministratore delle Agenzie “FastWay”, datore di lavoro di quaranta persone, più autista e domestica.
Guadagnavo ventimila euro al mese, quelli dichiarati, intendo. Altri trentamila circa passavano direttamente da hotel e clienti al mio conto bancario estero.
Eleonora era la referente del conto corrente criptato.
Mi disse che avevo troppi capelli grigi e troppi silenzi. Rise.
La portai a cena, poi a letto, poi sull’altare.
Durante la crociera di nozze, la prima sera, le urlai di stare attenta a non appoggiare l’accappatoio bagnato sul mio. Eleonora mi fece notare che anche il mio era bagnato.
Ringhiai e mi chiusi in bagno.
Dall’oblò scorgevo le rive del Mar Rosso, profili di dune che diventavano donne sdraiate alla luna e mi chiedevo.
Se lei era lì.
Al ritorno a casa, la stessa piccola, buia casa di sempre, Eleonora ed io eravamo già due estranei.
L’autista la fece scendere e con la mente la vidi esplodere sul cofano di un camion.
Poi mi girai dal mio lato, verso casa.
Grigia, piena di rughe. Chiusa in se stessa.
- Non disfo le valigie, vado in albergo – mi sfiorò l’ondata gelida di Eleonora.
Mi bloccai. Immagino che ogni atomo, intorno, lo abbia fatto. E anche i neutrini, in tamponamenti a catena, a fermare lo scorrere del tempo.
- Se ti dispiace è un tardi, carino.
Fissai quell’essere femmineo che mi si parava davanti, con aria di vittoriosa sfida.
I suoi occhi blu non erano specchi d’acqua tropicale, ma melatonina smorta. Le sue labbra piene, non invito al desiderio, ma edema mucoso.
E, tuttavia, le sorrisi.
- Vai via?
Eleonora annuì, incerta.
- E se ti pago?
Iniziò a ridere. A emettere versi. Asino, rospo, alieno.
- Credi di comprare il mio amore? Di farmi restare con te, mentre mi offendi giorno dopo giorno, e intanto mi offri denaro?
- Settantamila euro dal mio conto corrente. Esentasse. Se sparisci, ora.
La maschera divertita di Eleonora si afflosciò nello sbigottimento.
- Ventimila subito, se te ne vai – iniziai, ma la voce inciampò nell’emozione.
Deglutii e ripresi, in tono fermo.
- Se te ne vai a quel paese, ora.
Il cuore riprese a correre, i neutrini fecero lo stesso.
Il tempo si rimise in moto, perché avevo trovato una soluzione.
Doveva funzionare così.
Lei era sparita a quella frase.
- Vai a quel paese, Eleonora.
Le palpebre della mia seconda moglie come serrande in un frenetico apri e chiudi.
Estrassi dalla giacca un biglietto.
Lo avevo scritto per lei, agli inizi della solitudine.
Lo avevo portato sempre con me.
Eleonora accolse quel foglio dalle pieghe annerite con mani tremanti.
Le strinsi nelle mie, con forza. Le placai.
- Quarantamila se la trovi e la convinci a tornare a casa.
Eleonora fissava le miei mani che annullavano le sue. Non parlò più.
- Vai, vai a quel paese – la esortai.
E, in qualche modo, credo stesse già svanendo.
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