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Lungo il vento

Lungo il vento - dall'omonimo romanzo edito di Giovanni Sicuranza


- Lasciati andare.
La bambina esita, sospesa nel vuoto. Oscilla solo un po’, gli occhi che si chiudono piano e lasciano che la mente si riempia di vento.
- Lasciati andare – insiste la voce. 
Le mani di lei si stringono di più al ramo.
- Non so se è una buona idea – replica, con tono incerto. 
In realtà vorrebbe mollare la presa e abbandonarsi al salto nel fossato, tra le foglie morte del bosco, perché comincia ad essere stanca, tanto stanca. Però non solo il suo corpo non sembra per niente pronto, ma si sta dimostrando il più tenace, e la trattiene, come un’appendice del grosso ramo libera di ondeggiare al vento d’autunno. 
- Sono pochi metri, forza. 
La bambina sbuffa e il suono che pigola dai polmoni affaticati è così insolito, sconosciuto, che lei dapprima spalanca gli occhi, stupita, poi inizia a ridere, a ridere con gusto, il corpo che si scuote ben oltre il vento, le mani troppo intirizzite per reggere anche quel movimento scoordinato. 
- Mammaaa – urla mentre cade e continua a ridere.
È un attimo. Ed è anche tempo di chiudere ancora le palpebre, di serrarle proprio, e rivedersi pochi minuti prima, durante la corsa sulla collina. 
Ritrova la sensazione di volare, quella bella, però, non come questa; quella che ha assaporato nei salti sulle radici sporgenti del bosco, piena del rosso acceso delle sue scarpe da ginnastica, fino a quando non ha raggiunto la cima e invece di fermarsi ha saltato ancora, oltre l’ultima radice, nera come i bastoncini di liquirizia appena comprati nel negozio della signora Iole, che le gonfiano la tasca della gonna, che ora le sembrano tanto pesanti. 
Credeva che dopo sarebbe inizia la discesa, da divorare in un unico balzo, e invece.
- Ahiii – esplode senza aprire gli occhi, quando ascolta lo schiocco delle foglie secche che si spezzano sotto il suo peso – Ahiii – ripete con tutto il fiato rimasto, quando il buio nella testa diventa un unico vortice con quello del corpo che si accartoccia su se stesso.
Poi, silenzio. 
Ma solo il silenzio della voce, perché tutto dentro di lei è respiro affannoso, marea crescente di pianto, così veloce da sovrastare il richiamo dell’amico.
***
Osvaldo osserva il fagotto di Cinzia, infossato tra foglie e rami. 
Immobile, un braccio girato in modo strano, con il dorso della mano sulla nuca; il palmo bianco, tanto bianco, aperto verso di lui.       
Apre la bocca per chiamare l’amica e subito la richiude, nel timore che lei non risponda. Forse è meglio rimanere nel dubbio. 
E forse era meglio non esortarla a buttarsi. È che tra penzolare nel vuoto appesi al ramo e atterrare sulle foglie morte, il salto gli sembrava la soluzione migliore. 
Insomma, è stato suo fratello a dirgli che le foglie morte sono ormai così tante in questa stagione che puoi lasciarti andare sopra di loro, come fanno al cinema gli attori, quando cadono dai palazzi e atterrano su un materasso nascosto, senza farsi male. Li ha visti, lui, quei salti, attraverso il bianco e nero del cinematografo, da poco aperto nella piazza. 
“E’ un trucco che si può provare anche nei fossati più bassi del bosco”, gli aveva sussurrato Giacomo, seduto accanto a lui, con un sorriso complice. 
In paese, tutti in paese sanno che suo fratello Giacomo è una persona intelligente, cioè, di più, è persino un carabiniere. 
Solo che è anche alto il doppio di Osvaldo, solo che Cinzia è ancora più piccola, solo che forse quelle foglie che ora la ricoprono in parte sono un velo, non un materasso da cinema.  
Solo che solo che.
Osvaldo deglutisce e apre di nuovo la bocca.
Cinzia, chiama piano, così piano che il suono non esce dalla mente.
Cinzia è a pochi metri sotto di lui e forse si è addormentata. Ma c’è quella mano rivolta ai suoi occhi, così tanto troppo bianca. Un pallore che risalta ancora di più tra le macchie rosse sulla sua maglia.
Forse sono solo i sanguanì, tenta di rassicurarsi Osvaldo, mentre gli occhi scivolano ai suoi lati, lungo il margine del fossato, dove il colore rosa dei funghi si sporge oltre il verde. Con un gesto rapido, ne afferra uno e lo spezza. 
Sì, sono loro, sono stati loro, si ripete, veloce, per non lasciare spazio al dubbio, mentre un liquido rossastro e appiccicoso cola dal fungo, non è sangue, sono solo i sanguanì. 
Poi lo sguardo cade in basso, sulle macchie rosse nel vestito di Cinzia, e la gola di Osvaldo si stringe, fino a diventare piccola piccola, tanto che lui deve deglutire in rapida successione, spingendo la saliva giù e poi giù, per ritrovare il respiro. Intanto anche i ricordi rotolano nel fossato.  
Cinzia era troppo presa dalla corsa sulla collina, dalla potenza delle sue nuove scarpe, per fermarsi in tempo. Soprattutto, era felice per la possibilità di battere l’amico. 
Anche per questo Osvaldo si sente responsabile. 
Avevano comprato i dolci e le scarpe americane in paese, dalla signora Iole, e mentre tornavano a casa lui le aveva proposto di abbandonare la strada e tagliare per il bosco. 
Lei lo aveva fissato silenziosa e allora Osvaldo aveva indicato le sue scarpe rosse.
“Nuove nuove, no?”.
Cinzia aveva sollevato un sopracciglio. E se fosse stato grande come suo fratello, Osvaldo l’avrebbe baciata sul momento, lì, al limite tra la strada e il bosco. Perché non capiva bene cosa significa avere una tipa ed essere sballati per lei, ma sapeva che due anni prima, quando aveva conosciuto Cinzia alla festa della parrocchia, lei aveva sollevato il sopracciglio, proprio come adesso e tante volte dopo. Lui era arrossito, il cuore diventato una capriola nel vuoto, aveva chiesto scusa per il suo nome buffo, e per questo sul viso era passata una tinta di rosso ancora più intenso. 
Invece Cinzia gli aveva fatto il regalo più bello e sorprendente di tutta la sua breve vita. Un bacio sulla guancia, proprio così, un bacio piccolo e fresco sul suo viso rovente, poi aveva raggiunto le sue amiche, lasciandolo solo e pietrificato. 
E innamorato. 
Da quel giorno Osvaldo e Cinzia erano diventati inseparabili, uniti nel gioco, nelle corse dalla campagna al paese per comprare tutto quanto di colorato e bello vende la signora Iole, comprese le scarpe da ginnastica rosso fiamma per lei. 
Quelle che ora si stagliano tra il giallo delle foglie e dall’alto sembrano appendici di sangue nel corpo immobile.
Cinzia, implora Osvaldo, inginocchiato sul bordo del fosso, una mano ben salda al ramo sporgente che poteva essere la salvezza dell’amica. 
Se solo tu non l’avessi convinta al salto, pensa con la voce di Giacomo, in un sarcasmo così forte da graffiargli il respiro. 
Con l’altra mano, Osvaldo si asciuga le prime lacrime e nemmeno se ne accorge.
La colpa è sua, sì, perché lui ha sfidato Cinzia a correre, mentre a quest’ora potevano essere sdraiati sul fienile del babbo a scherzare sui disegni delle nuvole. E magari lui avrebbe osato piano piano avvicinare la sua mano a quella di lei, forse addirittura sfiorarla, proprio quella mano che ora è così bianca e ferma.
Aiuto, geme con il nome del fratello tra le labbra. Il bosco ha solo un sussurro indifferente di vento. 
Proporle una corsa gli era sembrato una grande idea, lei così felice delle sue nuove scarpe, lui così segretamente innamorato da decidere di farla vincere.
Aiuto, implora ancora solo con se stesso. E spalanca occhi e bocca quando gli sembra di scorgere un movimento, laggiù nel fosso. 
Cinzia si è mossa, forse, o forse no, ma tanto basta. Osvaldo saetta in piedi. Ora è di nuovo vivo e sa cosa fare. 
- Vado a cercare qualcuno – urla – Non ti muovere – aggiunge, ricordandosi che nei film lo dicono sempre in questi casi. 
Cinzia sembra ascoltarlo anche troppo, immobile e silenziosa.
Dai, è solo svenuta, dai, lo esorta Giacomo. 
 E Osvaldo inizia a correre a ritroso, giù per la collina, verso la strada. 
Corre e corre, dimenticandosi quasi di respirare, gli occhi socchiusi che eliminano ogni colore intorno. 
Proprio come se fosse in un film.
***
- Vai piano. Piano, accidenti.
Giacomo smette del tutto, si scosta da Elisa e scivola con la schiena sulla coperta di lana.
- Oddio, Giacomo – sente gemere la donna mentre i suoi occhi si arrampicano sul soffitto di legno – Ti sei arrabbiato?
Lui chiude gli occhi, sperando che la domanda si dissolva nel silenzio, ma Elisa torna alla carica. 
- Giacomo? Giacomo.
Un lungo sbuffare, che spezza la frase della donna. Poi, nel buio, Giacomo la ascolta piangere. Ma non si muove, non apre gli occhi, non parla nemmeno.
- Scusa, scusa, è che, lo sai, se ci sentono, non siamo nemmeno sposati – cantilena Elisa da un luogo ormai lontano.
E mica ci penso a sposarti, scema, le risponde lui, la bocca chiusa, sdraiato sul letto accanto alla donna che fino ad un attimo prima ha montato con foga. 
Bastava non farla tanto difficile, godersi l’attimo, e chi se ne frega se li sentivano. Tanto lo sanno tutti che Elisa è una sverginata, ormai buona solo per divertirsi. 
Ma lei si illude ancora, tanto appetibile quanto scema. Se ne sta lì, nell’angolo della chiesa riservato alle donne, e mentre il prete celebra la messa nella lingua antica dei romani, spera che al termine della funzione qualcuno le chieda di uscire e magari si innamori di lei.
Giacomo apre gli occhi e finalmente si gira verso Elisa. Sorride.
E lei gli risponde subito, con un sorriso fragile, l’espressione preoccupata che le copre il viso.
- Ti sei arrabbiato?
- No – la rassicura Giacomo, una mano che sfiora la sua guancia e sussurra amore, sul profilo delle labbra e poi giù, dove le dita indugiano, leggere, decise.
Un mugulare, il collo offerto all’uomo, la schiena che si inarca.
Povera scema, pensa l’uomo, gli occhi che divorano i capezzoli turgidi, povera sgualdrina, la mano che scivola ancora più giù e si serra su un seno.
- Ahi! – esplode Elisa, tornando alla realtà. Guarda il suo Giacomo e ondeggia tra lo stupore e il dolore perché  sul viso di lui intuisce un distacco improvviso e duro.
- Giacomo! – urla di nuovo, quando sente la sua mano diventare tenaglia – Mi fai male, basta! – e tenta di allontanarsi, mentre sue le mani accorrono in soccorso del seno e cercano di liberarlo dalla presa. 
Ma  l’uomo è ancora più lesto. 
Le afferra i capelli e le spinge il viso in basso, contro il cuscino, con forza. Una forza fatta di muscoli allenati nei campi, sotto il sole, sotto la pioggia, lungo il vento. 
Con tutto il corpo salta sulla schiena di lei e inizia a spingere ancora di più e di più. 
Il viso di Elisa affonda nella stoffa umida, mentre il resto di lei inizia una convulsa danza di ribellione alla morte.
Giacomo guarda la nuca della donna e spinge, le ginocchia ben salde sulla sua schiena, mentre lei non può più nemmeno liberare le braccia, serrate tra il materasso e il suo stesso corpo. La pressione è così forte, che quello che le esce dalla bocca è solo un fiato breve e disarticolato.
- Nulla di personale, sai. È che in questi giorni la gente deve distrarsi con altre notizie.  
Giacomo china il viso; le sue grandi mani, e tutto il suo corpo, diventano un macigno sull’agonia della donna.
- Tu, tesoro, sarai la nostra notizia.
Sono le ultime parole che lei sente. 
Ed è la prima volta che un uomo le parla con tanta dolcezza.
***
Giacomo si alza dal letto e indossa la divisa da carabiniere, con gesti lenti. 
Ora è stanco, tanto stanco. E sudato.
Non credeva che uccidere facesse sudare tanto anche in pieno autunno. 
Si avvicina alla stufa al centro del monolocale di Elisa e per un istante rimane ad osservare i pigri bagliori delle fiamme sulla ghisa, poi, come scosso, allunga una mano verso la valvola di alimentazione e la gira la massimo. 
La stufa ha un lungo sbuffo, mentre la legna si consuma e le fiamme si arrampicano leste al suo interno.
- Bene – approva l’uomo, allontanandosi.
Una rapida occhiata lo rassicura sulla chiusura dell’unica finestra della stanza, oltre la tenda che cade sul pavimento in una lunga cascata di poliestere. 
- Sei stata brava, Elisa – ammette, mentre prende un lembo della tenda, nero di fuliggine, e lo solleva – Hai pensato ad ogni particolare per farmi passare inosservato. Sai quanto è importante per un maresciallo non essere compromesso.
Si avvicina di nuovo alla stufa e con la mano libera gira la maniglia dello sportello. Le fiamme, ormai troppo strette nell’abitacolo, guizzano all’esterno.
- Che strano – riflette lui, gli occhi che si lasciano di nuovo avvolgere dal fuoco e dal suo gioco di luce ed ombra, ora più rapido - Tutti sanno che hai già perso la verginità, si dice che ti sei persino sbarazzata di un figlio bastardo – la fiamma ha un altro balzo verso l’esterno e Giacomo, nonostante l’espressione assorta, è lesto ad offrirle il lembo della tenda – Eppure sei così prudente e riservata quando ti fai montare. 
Il fuoco salta sul tessuto e inizia a divorarlo, avido.
Giacomo capisce che è arrivato il momento di andarsene. Un passo lungo, un altro, ed è già alla porta. 
Prima di aprila, dedica un ultimo sguardo al corpo nudo e assente di Elisa. Segue la rotondità delle natiche, la vallata della schiena, fino al capo affondato nel cuscino, i capelli rossi e lunghi sparsi tutto intorno come una strana pozza di sangue.
- Magari qualcuno che ti sposava lo trovavi davvero - mormora. 
Poi, mentre le fiamme saltano sul letto, apre la porta, scruta il pianerottolo buio, ed esce. Pronto a raggiungere il resto del paese alla messa. 

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