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Cantico d'inverno



Cantico d’inverno
Giovanni Sicuranza

Virgole bianche sul cielo.
L’uomo ne segue la grafia lungo pagine gonfie di nuvole invernali.
Ascoltate il mare, vero? - sussurra ai gabbiani - Parla con i segnali della preda. Il pesce è la vostra parola più intensa.
 L’impronta della frase rimane sulla vetrata della cucina, qualche secondo, prima di svanire.
È solo un’altra illusione sulle macerie del vuoto.
L’uomo torna a letto, aspira una boccata di nulla, tossisce echi di silenzi.
Lo sguardo cade sul telefono, muto sul comodino. Ma lui non lo vede, gli occhi che guardano nel passato.
Quando credeva di essere vivo.
Tira un’altra boccata di rimpianti e subito dopo smette di respirare. Il roco richiamo del citofono, ripetuto una volte, due. Pensa di non rispondere, di fingere di non essere in casa, che poi tanto finzione non è, perché forse non è più reale. Ma chi c’è dall’altra parte è più caparbio del suo fluttuare nel delirio, lo sommerge di urla di citofono, lo costringe a scuotersi.
Si lascia portare dai piedi lungo il corridoio che lo separa dall’ingresso, circondato dai quadri acquistati in blocco a un’asta fallimentare, in cui a ogni pennellata trema la mano di un dilettante.
- Sì? – impasta la bocca di parole che gli sembrano estranee. Dalla parte opposta, qualcuno si presenta.
Lui cerca un labbro, veloce, lo imprigiona tra i denti. La mano tentenna, scende sul fianco, poi trova uno spiraglio nell’aria densa e apre la porta.
Girotondo di chiavi.
L’uomo ha il tempo di aprire la credenza e di prendere un paio di bicchieri opachi, quando lo raggiunge una voce che chiede permesso. Tono cortese, incerto.
Appoggia i bicchieri nel lavandino, sopra ere geologiche di cibo, e si affaccia sul corridoio.
La persona è ferma sull’uscio, esile contorno in penombre ritagliate sullo sfondo del sole.
- Vieni avanti – la esorta, ricordando come si parla nel mondo reale.
Dall’altra parte, nessun movimento.
Nemmeno lui torna sui propri passi.
Rimangono così, sospesi, a osservare i reciproci contorni senza particolari, il silenzio interrotto dallo stridio esortante dei gabbiani.
Poi la persona si avvicina, lentamente, e in un attimo l’uomo ha la breve intuizione di un sogno già conosciuto.
La ragazza deve avere vent’anni.
La ragazza ha capelli scuri, che risaltano la pelle chiara.
La ragazza ha. Occhi vivaci.
Rendendosi conto che la sta fissando, l’uomo distoglie lo sguardo e si affretta a recuperare i bicchieri ingoiati dal lavandino, quindi li innalza oltre le spalle, come trofei del quotidiano.
- Ho solo birra. Altrimenti acqua. Non credo di poterti offrire un alcolico – aggiunge ironico, prima di sentirsi un imbecille.
La ragazza tace.
Lui sospira e lascia i bicchieri sul tavolo.
- Scusami – mormora, mentre si decide ad andarle incontro.
Lei, lo sguardo chino, coperto dai capelli scesi sul viso, gioca nervosamente con le mani.
Quando si rende conto che l’uomo si sta avvicinando, fa un passo indietro e senza sollevare il viso esaurisce il fiato in una frase veloce.
- Non dovevo disturbarla sono capitata in un brutto momento mi dispiace io.
- No – la interrompe l’uomo, piano - Non sono mai stato un campione di accoglienza, tranquilla, va tutto bene.
- Ah, beh, io, se è questo – prosegue lei, inciampando in ogni parola.
A quel punto l’uomo ha un’intuizione che incrina il muro di disagio. Un goffo inchino, mano sinistra al petto e destra tesa a indicare la cucina. Un paio di passi dopo, ha preso una sedia in legno e l’ha offerta alla ragazza.
- Grazie – decide lei, sedendosi. Così spoglia tutto il viso alla luce del sole.
L’uomo chiude gli occhi, il cuore che sussulta e cerca scampo in gola, e quando torna a lei, scopre di essere ancora studiato da occhi perplessi.
Allora le volta le spalle e, aperto il frigorifero, chiede ancora “birra o acqua?”, mentre il respiro diventa ansia.
Lei lo blocca, “no, grazie”, e a lui non resta che affrontarla. Diretto, subito.
Prende un’altra sedia e le siede accanto.
Sul volto della ragazza, l’espressione di perplessità è diventata scultura. Lo osserva raccogliere in un blocco fogli bianchi, sparsi sul tavolo, simili a lenzuola in un caotico dormitorio.
- Mi dispiace, nemmeno l’ordine è il mio forte – mormora lui, raspando nei ricordi alla ricerca di un tono divertito – Però ho bisogno di ordine prima di iniziare un nuovo incarico – pausa, forse lo ha trovato – Beh, salvo tornare alla mia confusione non appena ho terminato questa frase – sorriso.
Lei annuisce, tanto per.
L’uomo alza una mano.
- D’accordo – si arrende – dimmi qual è il tuo problema.
La ragazza esita, guarda una cucina senza interessi, così spoglia da essere tormentata dal ticchettio di un orologio da parete.
- Una lettera, mi dicevi ieri al telefono – la esorta lui, iniziando a sentirsi di nuovo a disagio.
La ragazza si ferma sui suoi occhi, tenta di sorridere. Arrossisce.
- Siamo in alto mare? – tenta lui e indica alle sue spalle, oltre la vetrata. Magari ha trovato la vena dell’ironia.
Lei annuisce, sorrisi sotto i piedi, forse.
Tic tac tic tac
L’uomo affonda nella sedia.
- Allora, bisogna che mi racconti qualcosa, vediamo se riusciamo a venirci incontro.
- Sì – concorda finalmente la ragazza.
***
Non c’è riposo per l’uomo questa notte.
Il mare soffia sulla casa e lui non lo ascolta.
Chino sul tavolo della cucina, scrive.
Ogni tanto si ferma, osserva la luce fremente del lampadario, lo strisciare di ombre sulle pareti, e ricomincia a scrivere. Si ferma ancora, assorbe la cadenza dell’orologio, ricomincia a scrivere.
E mentre i fogli si riempiono, avverte il rinnovarsi di un senso di solitudine, questa volta più profondo, quasi nuovo, a cui non sa dare un nome.
La notte passa, come la fanno passare gli uomini, con il mare che mormora, vicino e distante.
***
Gli occhi bruciano, il giorno dopo.
Ha scritto a mano una lunga lettera per la ragazza. Una bella lettera.
Tra poco lei tornerà per prenderla, per pagarlo, ma lui non si sente soddisfatto.
Da tempo ha messo la sua capacità di scrittore a disposizione di chi ha bisogno; su ordinazione e compenso, compone lettere dedicate ad amori mai nati, perduti, malati. Lontani. Offre una comunicazione smarrita in pochi anni, la penna fagocitata dai PC, nelle veloci sinapsi della rete. Qualcuno ancora preferisce la frase “ti voglio bene”, piuttosto di “tvb”.  
È così abile che in breve periodo il passaparola ha portato fino alla casa di mare decine e decine di persone.  Cercano tutti un altro sentiero per conquistare l’illusione.
Li fa accomodare in cucina, ascolta il caso e la notte  trasforma il desiderio in parole scritte. Carica la penna di dolore e rabbia e malinconia e incomprensione e segna la carta di belle speranze. Non garantisce un risultato, informa che spesso la vittoria è un sussurro d’amore nel vuoto.
A lui, ogni volta, rimane il senso di un mondo fatto di nulla.
Di lacrime che tornano e baci che mordono.
Di parole che non hanno un corpo su cui adagiarsi.
Di desiderio che non conosce il linguaggio dei sensi.
Ma la gente continua a cercarlo.
Il mare, dall’altra parte della vetrata, spinge le onde a riva e torna indietro per prenderne nuove.
Lui gli volta le spalle per perdersi nel letto.
***
La ragazza lo attende, coperta dal vento che gioca con i capelli e con i riflessi dei suoi occhi.
Lui arranca sulla sabbia, sbuffando, la lettera piegata in una mano.
È un po’ seccato, perché non avrebbe voluto rivederla in riva al mare, ma, come è sua abitudine, ancora al riparo della casa, ma lei lo ha chiamato all’ultimo momento insistendo per spostare l’incontro.
- Sono solo pochi metri, la prego.
- Non ne comprendo il motivo, scusa.
- Non c’è motivo – click.
Superata l’ultima duna di sabbia che li divide, si ferma e la guarda.
È la ragazza che lo ha confuso stupito ieri, è vero, eppure non è proprio la stessa.
- Buongiorno – saluta lei con un sorriso aperto, incredibile.
- Ciao – risponde lui, cauto. Sì, ha qualcosa che ieri non c’era.
Il mare li sfiora con le onde, mormorando suoni che non interessano, i gabbiani protestano alti per l’intrusione umana, fuori stagione.
- Ho la lettera – l’uomo mostra i fogli in uno scatto, con l’urgente bisogno di allontanarsi.
Lei annuisce, ma non guarda la sua mano, gli occhi ancora fermi nei suoi.
Ecco cosa, pensa allora l’uomo, è la stessa ragazza, certo, ma non è quella indecisa e timida di ieri. Oggi è una donna.
Un peso allo stomaco, il desiderio di tornare nella casa che diventa prepotente.
- Bene, allora, se vuoi leggerla un attimo prima di pagarmi – le parole cadono nel vuoto. Lei continua a fissarlo, in silenzio.
Fruscio di onde, urla di gabbiani.
Tenta un sorriso, l’uomo, ma viene fuori una smorfia storta.
- Senti, di solito faccio così, te l’ho spiegato. Dovevamo trovarci da me, come ieri. Leggi la lettera e mi dai i soldi con tanti in bocca al lupo per il rapporto che vuoi ritrovare.
- Tu hai scritto la lettera – scolpisce la donna nell’aria.
L’uomo lascia andare una risata monca, che si unisce al verso dei gabbiani.
- Certo che l’ho scritta, eccola!
- E allora non importa che io la legga.
Silenzio.
- Non capisco, scusa.
La donna si avvicina, fino a sfiorargli i capelli grigi.
- Dicono che somiglio a mia madre quando sono seria.
L’uomo arretra di un passo, due, ma la mano di lei continua a trattenergli i capelli.
- Ti ho chiesto di scrivere una lettera per un padre che non ho conosciuto, che non ha mai voluto vedermi – gli occhi della donna sono umidi di acqua e vento.
Lui scuote la testa, si accorge che la mano con cui regge la lettera trema e istintivamente stringe ancora di più la presa.
- Anche se lo hai fatto per un compenso, in tutta questa notte hai scritto del dolore di una figlia abbandonata dal padre. E forse ora lo intuisci.
Estrae una mano dal giubbotto e lascia cadere le banconote verso la sabbia. Il vento se ne impossessa per consegnarle al mare.
- Puoi tenere la lettera, so che è molto bella. I nonni mi hanno raccontato della tua abilità di scrittore.
Quindi si volta e con passi lenti abbandona la spiaggia, lasciando l’uomo immerso nelle ragioni di una lunga solitudine.
***
La mattina dopo l’uomo torna in spiaggia.
È solo.  
Si siede sulla sabbia, scrive.
Scrive una lunga lettera alla figlia, sugli aghi freddi del vento. Scrive parole complete, come non si usa più. Narra la lenta morte di un amore, e l’abbandono di una famiglia, senza spiegazioni.
Alla quarta pagina, firma. In modo completo, leggibile.
Poi lascia i fogli alle onde. 


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